LIBRI
Erri De Luca, un artigiano "trafficante di scrittura"
“Scrittore in italiano”, come ama definirsi, per distinguere la lingua dell’infanzia da quella scritta, e opinionista de “Il Manifesto”, Erri De Luca, cinquantaseienne, napoletano, amante della montagna, ha scelto d’essere, altra sua definizione, un “trafficante di scrittura”. «Scrivo artigianalmente - dice a Balarm.it - non al computer, ma di penna. Nulla di avverso alla tecnologia, però». Lo fa per Feltrinelli; mentre ai piccoli, gli emergenti, spesso regala inediti racconti. Balarm lo ha incontrato in occasione di “Lettere dall’Oltremare. Scrittori e Migrazione”. Ecco l’intervista, quasi un racconto.
La tua presenza a Palermo, l’immigrazione. L’Italia si è trasformata da terra di emigrazione a terra di migranti. Abbiamo rimosso un passato scomodo, mentre lo sguardo, riservato ai nuovi arrivati, è peggio di quello che ci sentivamo addosso quando eravamo noi ad essere migranti. Da dove si può iniziare per educare la gente alle diversità, senza per questo considerare la propria cultura superiore e l’immigrato come qualcuno che toglie qualcosa?
«Intanto nessuno toglie nulla. I migranti aggiungono qualcosa alla nostra economia. In Italia lavorano anche i migliori stranieri. Gente che nei propri paesi d’origine ha frequentato le università, specializzandosi all’estero. Non farei, però, un confronto tra l’oggi e il nostro passato di emigranti; perché come spesso succede il passato si vuole dimenticare, così come credo che i nuovi ricchi russi vogliano dimenticare di essere stati poveri. Semmai, guardando ai movimenti di periodo, credo sia meglio risalire alla nostra geografia. Tutta la nostra storia dipende dalla geografia. Noi siamo come un “biscottone” inzuppato dentro il Mediterraneo. Attraverso le nostre coste, molto più delle Alpi, siamo stati attraversati da ondate di immigrazione e di invasione. In pratica, siamo geneticamente attrezzati all’accoglienza; la storia e il miscuglio di sangue ci hanno determinato a questo. Noi siamo una nobiltà del Mediterraneo. Proprio per questo, perché siamo un concentrato di semi mischiati, con tutti quelli che si sono affacciati in questo mare, la nostra nobiltà consiste nell’essere un’eccellenza della bastarderia, selezionata attraverso i millenni. Non farei, pertanto, un confronto di tempi. Più che alle diversità dell’oggi, alla migrazione, farei piuttosto riferimento alla memoria. Memoria d’essere da secoli una terra di passaggio, per questo abbiamo molti porti. Da noi, rispetto altrove, pochi si sono fermati, perché i porti sono luoghi dove la gente non si ferma, ma passa».
«Io credo che il ruolo di quelli che hanno un pubblico ascolto, una pubblica voce, sia piccolo. Non è un ruolo di guida né di supplenza di ciò che manca, ma solo di testimoni del proprio tempo. Il miglior modo per esserlo è la presenza fisica, mischiarsi col proprio tempo e stare al pianoterra delle cose. Un mio amico poeta di Sarajevo, durante gli anni della guerra di Bosnia è rimasto lì. Non ha approfittato degli inviti ad emigrare, a smaltire quella guerra da profugo in qualche università estera. E’ rimasto lì. Da quelle parti i poeti hanno un ruolo importante, hanno una parola importante. Per strada le persone lo salutavano citandogli i suoi versi. E’ rimasto lì a fare la fila per l’acqua, per il pane, sotto la grancassa delle artiglierie e delle pallottole, anche scrivendo pochissimo. La presenza fisica, insieme ai concittadini di Sarajevo, è stata la sua migliore poesia. Dunque, quando qualcuno mi chiede generosamente che cosa deve fare un artista, la risposta è “stare”, “condividere la malora del proprio popolo per poterne portare testimonianza”. Per il resto potere fare la guida, guardare le cose da un punto di vista panoramico, io non ho mai saputo farlo».
Non credo sia così e cito testualmente un tuo libro, "Sola andata": "in guerra le parole dei poeti proteggono la vita insieme alle preghiere di una madre. In una guerra gli orfani e quelli senza un libro stanno allo scoperto". Qual è, così chiedo, la responsabilità di chi scrive?
«Intanto quella guerra succedeva in Jugoslavia. La mia responsabilità di scrittore era stare dalla parte dell’obiettivo, del bersaglio; guardare la NATO dalla parte del bersaglio. Succedeva che in quella guerra questo nostro paese aveva deciso di partecipare al bombardamento di città; e io considero il bombardamento delle città l’atto terroristico per eccellenza, rispetto al quale ogni atto terroristico, così come ogni altro con questo nome, è una decima. La mia posizione ostile a quell’atto è stato quella di condividere la paura del bersaglio. Mi sono trasferito a Belgrado e ho abitato lì. Che cosa ho fatto? Ho potuto semplicemente riportare da lì la mia testimonianza di bombardato, di bersagliato, collegare la mia esperienza di iscritto volontario ad una guerra a quella dei miei genitori che sono stati iscritti obbligatoriamente ad una guerra (durante il secondo conflitto mondiale) e che quei bombardamenti, quelli di Napoli, li avevano dovuto subire per necessità non volontaria. Io sono andato lì per scelta di dissociazione dal mio paese. Il risultato è stato che ho riannodato la mia esperienza a quella degli altri. Che cosa dovevo fare? Non lo so, potevo fare forse qualcosa di meglio, altri lo hanno fatto certamente, io non potevo fare altrimenti, per come sono io. Parlo di questo fatto perché mi hai citato quella pagina. Quella pagina non l’ho inventata, l’ho riportata da lì».
Ancora cito da "Sola andata": "il prigioniero chiude un seme nel pugno e aspetta che germogli spaccandogli la stretta". Ti senti veramente libero?
«La libertà non è una faccenda individuale, ma sociale. Se un popolo si sente libero, uno ha anche diritto di sentirsi un poco prigioniero. Non succede il contrario. Se un popolo è prigioniero nessuno ha il diritto di sentirsi libero. Io mi sento una libertà limitata, non sono ai domiciliari, ma insomma, una sorta di libertà vigilata , ma condivido una condizione di vantaggio: appartengo a questo angolo di mondo in cui la libertà riguarda le Costituzioni».
Due – come scrivi in un altro tuo libro – è il contrario di uno, è sinonimo di alleanza, di solidarietà. Non pensi che oggi si vada nella direzione opposta?
«Sì, lo penso. Penso che la volontà di coppia si sia disgregata. Non solo, ma quando viene ribadita questa volontà di coppia io ascolto la risposta a certe domande, tipo “ma quando fai un figlio?”, risposta “eh, ma siamo giovani!”, come se fare figli fosse un fare testamento, una malattia, una cosa che capita in vecchiaia. C’è, dunque, una disgregazione della volontà di stare insieme, ma anche una sterilità di fondo. Ne parlo da competente, perché sono single e senza figli».
Un ultima domanda, prima di salutarci. Qual è il peso della nostalgia nel tuo scrivere?
«Nessuno, sono un mutilato del sentimento della nostalgia, non ce l’ho, non provo nessuna nostalgia e non vorrei tornare in nessuna stazione del tempo precedente, nemmeno la più appetitosa».
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