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Dottorati: una storia tra "baroni" e buona sorte
"I miei hanno regalato allʼUniversità tanti soldi per la mia istruzione. Credono che io sappia un sacco di cose. Ma è come se non avessi imparato nulla"
Sulla mail c'era scritto che avevano indetto il bando per il dottorato alla Sapienza. Erano anni che aspettavo che qualcuno mi dicesse che avevano pubblicato un bando di dottorato. Per me la cosa più importante da fare era provarlo, vedere se qualcosa di buono ne sarebbe venuto fuori, vedere se sarei riuscita a guadagnare qualche soldo anche solo studiando. Andai subito sul sito della Sapienza e scelsi il dottorato in Italianistica. Avevo un obiettivo, finalmente. Un obiettivo serio. Volevo scrivere di Bianciardi e della "vita agra". Erano mesi che mi appassionavo alla scrittura di Bianciardi, mesi che mi interessavo alle sue giornate grigie e che le vivevo grigie anch'io in modo perfettamente speculare.
Mi piaceva l'idea, mi dava forza. Mi piaceva prima di tutto perché sarei potuta tornare a Roma, avrei potuto rivedere i miei amici, quelli che avevo lasciato perché il contratto era scaduto. Mi piaceva perché a Roma, per quanto vivessi in un ghetto di soli siciliani, potevo esprimere la parte migliore di me, potevo essere autonoma, indipendente. Andai subito sul sito per l'iscrizione. Dopo pagai il bollettino in banca. Trentacinque euro, solo trentacinque euro per la mia indipendenza, pensai. Mi vennero in mente tutte le tasse che avevo pagato per specializzarmi in "Editoria e scrittura" e mi venne subito un senso di colpa atroce nei confronti dei miei genitori. Avevano speso una fortuna per darmi lʼopportunità di studiare. Lessi bene il bando e le possibili tracce.
C'era un tema sul romanzo cavalleresco, un altro su Boccaccio e un altro ancora sul romanzo del Novecento. Va bene, avevo pensato. Devo riprendere il Luperini e darmi una mossa. Avevo parlato con un mio amico e mi aveva consigliato di chiedere un parere al mio vecchio relatore. Aveva detto che lui sicuramente avrebbe potuto darmi delle dritte. Mio padre mi aveva detto di lasciar perdere, che per il dottorato c'erano poche borse di studio e probabilmente erano tutti raccomandati. Quell'anno i fortunati sarebbero stai sei. Avevo chiamato il mio professore, trattenendo il fiato e arrossendo per la vergogna. Vergogna di che?, pensai. Mi disse "Salve, mi ricordo perfettamente di lei". Era stato rincuorante. Gli spiegai che volevo provare l'esame di dottorato e gli parlai del mio progetto su Bianciardi. Mi disse che l'idea non era male ma che dovevo vedere chi avrebbe fatto parte della commissione. Gli dissi che non sapevo com'era composta la commissione ma che mi sarei informata.
- Guardi che è importante sapere chi c'è in commissione, il tema lo scelgono in base agli argomenti che hanno trattato i membri nel corso dei loro studi.
Chiamai il professore.
Pensai che se un professore ti fa un discorso del genere allora c'è qualcosa che non va. Fino a quando sono gli studenti a lamentare il problema allora è tutto ok. Ma se un professore ti parla di raccomandazioni e di baroni universitari, allora c'è un problema da entrambe le parti. Ci sono professori che non possono esercitare il proprio mestiere perché esistono i cosiddetti "baroni" e persone che non possono pensare di scrivere progetti di dottorato perché non ha senso. Storia vecchia, certo. Non così tanto vecchia però. Fa sempre male. Fa sempre riflettere. Fa sempre schifo. Perché dobbiamo accontentarci di questo? Perché dobbiamo continuare a farci prendere in giro?
Un sacco di ragazzi mi hanno detto "provalo il dottorato che non si sa mai". "Una volta il mio amico è passato anche se quell'altro era raccomandato perché i professori hanno litigato" e bla bla bla. Quell'altro è passato perché il professore in commissione è morto, quell'altro ancora perché il candidato raccomandato aveva la diarrea. Lo so, lo so. Il caso, come mi insegna Boccaccio, è sempre una buona arma. Ma non posso affidarmi al caso. Io ho la mia dignità, il mio tempo, prezioso quanto quello di questi baroni. Ho le mie giornate. Non ho voglia di perdere ancora tempo. I miei hanno regalato all'Università di Palermo e a quella di Roma un mucchio di soldi.
Hanno investito nella mia istruzione. Credono che adesso io sappia un sacco di cose. Ma è come se non avessi imparato nulla. Non si impara nulla da persone così. Soltanto alcuni mi hanno dato qualcosa, soltanto alcun hanno lasciato che io sviluppassi le mie capacità. E le mie capacità adesso non servono a nessuno. Abbiamo regalato i milioni all'Università pubblica, ma quei trentacinque euro avrei fatto meglio a spenderli per un regalo ai miei genitori.
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