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Dall’Opera da tre soldi: intervista a Tosca

  • 2 febbraio 2004

Salendo nei camerini del teatro Biondo di Palermo, Tosca non è ancora arrivata. Ha appena finito di cantare “La canzone del pescecane”, la prima delle diciannove songs scritte da Kurt Weill per “L’opera da tre soldi”, di Bertold Brecht, di scena dal 22 gennaio all’1 febbraio al teatro Biondo (via Roma 258). Intorno, passi di danza provati all’ultimo minuto davanti ad uno specchio, nel corridoio attori che gironzolano recitando in attesa del loro momento, dal palcoscenico musica e parole. L’atmosfera è surreale. E poi arriva “Jenny delle Spelonche”, ovvero Tosca. Davanti allo specchio, nel camerino, arriccia riccioli rossi, semplice e disponibile.

Nasci come cantante e poi approdi al teatro: tra un concerto e una rappresentazione teatrale, cosa preferisci?
«E′ una domanda che non mi pongo. Fortunatamente dopo Sanremo sono riuscita a non dover essere soltanto una cantante: ho fatto diverse cose, dai musical ai concerti di musica sacra. Faccio semplicemente tutto quello che mi piace, per passione.»

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Nell’"Opera da tre soldi" sei “Jenny delle Spelonche”. Quanto è importante il personaggio che dovrai interpretare, quando decidi di accettare un ruolo che ti viene proposto?
«La prima domanda che mi faccio è quanto mi possa somigliare, e quindi come posso riuscire a farlo. Secondo me, anche le attrici oggi fanno la stessa cosa: non c’è più un’attrice che, di punto in bianco, dimentica completamente se stessa. Come succede nel cinema, esistono i caratteri degli attori ma non più i ruoli, cosa che, a volte, può diventare un’arma a doppio taglio. Un attore può restare incastrato in uno stereotipo. Ho accettato di interpretare Jenny, perché il regista mi ha chiesto di avvicinarla al mio mondo: è un personaggio più maschile che femminile, aggressivo, a volte anche cattivo, ma ha una grande fragilità dentro.»

L’"Opera da tre soldi" è ambientata nella Londra del novecento, ma in scena è un via vai di immagini che richiamano Palermo, tra cassate, cannoli e sfondi da Vucciria. Ho letto che qualcuno ha storto il naso, dicendo che Carriglio in questa scelta doveva osare di più o non portarla avanti.
«Il mondo che ha creato è abbastanza irreale, potrebbe essere Londra, Palermo, Roma o l’Africa, forse anche un fumetto. Io trovo che per prendere un’opera, ed italianizzarla come ha fatto Carriglio, ci voglia un grande coraggio. Secondo me chi fa sbaglia e chi non fa giudica. I puristi si aspettavano un’interpretazione più classica, come quella fatta da Strehler, ma alla fine ciò che importa è la risposta del pubblico. E al pubblico lo spettacolo piace, ne è entusiasta.»

Oggi, che valenza può avere il teatro sociale, come quello di Brecht? Che ne pensi di un  teatro “spia sociale”, inteso come mezzo di informazione e denuncia?
«Secondo me il teatro di Brecht oggi non può dire più niente se non viene attualizzato. Nella società del tempo era un’opera di protesta, ma oggi, nel 2004, dopo le Twin Towers, Brecht rappresenta una sinistra che non esiste più, sarebbe un tenue democristiano che si autodenuncia. Per quanto riguarda il teatro come mezzo di denuncia mi sta bene se fatto da gente coerente, come ad esempio Dario Fo, senza nessuna strumentalizzazione.»

Hai dei progetti futuri?
«Riprenderò lo “Spettacolo della canzone romana”, di Nicola Piovani, poi inizierò “Notte in bianco”, uno spettacolo scritto da me. E′ una cosa molto particolare, non è un concerto, non è un musical né una commedia…. ma in fondo è tutti e tre.»

C’è un gran caos, dal palcoscenico echeggiano colpi di mitra. Lascio “Jenny delle Spelonche” ai suoi riccioli, gli attori alle luci, e i musicisti alle note di Kurt Weill. Si torna alla realtà, quasi un euro al posteggiatore…

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