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Clean: ritorno dall’inferno

  • 31 maggio 2005

Clean
Francia, 2004
Di Olivier Assayas
Con Maggie Cheung, Nick Nolte, Béatrice Dalle, James Dennis,
Don McKellar, Jeanne Balibar, James Johnston

Il Rock come estetica di autodistruzione, come strumento di alienazione e di “nullificazione”? E’ una vecchia tentazione quella di raccontare così la stoffa di cui è fatto il Rock, quel mito che si infrange contro le barriere invisibili della realtà (come abbiamo visto nello straordinario “Last days” di Gus Van Sant che capta gli angosciosi silenzi di un simil – Cobain nei giorni del suo addio alla vita). Un anno prima del film di Van Sant, la meravigliosa attrice Maggie Cheung, indimenticata protagonista di “In the mood for love”, vinceva il premio a Cannes per la sua interpretazione in “Clean”, diretta dall’ex- marito Olivier Assayas. Si tratta del ritratto disperato di una rockstar in declino finita nella spirale della droga, Emily Wang, la moglie di Lee Hauser, un musicista che fece parte dell’eletta schiera della New Wave inglese. La coppia vive con difficoltà il tentativo di reinserirsi nel mercato discografico attraverso una serie di etichette indipendenti che promettono miseri guadagni. La tragedia esplode quando Lee muore per un overdose: è allora che la vita di Emily si trova ad un passo dal baratro. La donna trascorre sei mesi in prigione, per poi tentare la sua complicata risalita, una volta affrancatasi dalla schiavitù della droga.

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Così lascia la cittadina canadese per trasferirsi a Parigi dove lavora nel ristorante cinese di uno zio. Insoddisfatta e malpagata, Emily tenta un recupero professionale chiedendo aiuto alle amiche nel frattempo divenute manager rampanti. Una di queste, Irene (Jeanne Balibar) sembra impregnata di quel cinismo che è caratteristica del suo ambiente, mentre Elena (la Beatrice Dalle di “Betty Blue”), nonostante le sue disillusioni, riesce almeno ad offrirle un letto a casa sua. La nostra protagonista ha per di più un figlio la cui cura è affidata al suocero Albreght (un grandioso Nick Nolte) che, contemporaneamente, affronta con dolore il ricovero della moglie malata. L’uomo è l’unica anima buona capace di condividere il dolore della nuora, arrivando ad offrirle la possibilità di rinsaldare il legame col figlio e sottraendola al rancore della suocera, la quale è convinta assertrice delle responsabilità della donna rispetto alla morte del figlio Lee. Con “Clean”, il regista Assayas costruisce una specie di melò asciutto e disperato, giovandosi dell’efficace colonna sonora “ambient” di Brian Eno (composta in collaborazione con David Roback, chitarrista e leader dei “Mazzy Star” che appare in questo film nella parte di se stesso accanto all’artista del “Trip Hop”, Tricky). Assai espressive sono, inoltre, le canzoni cantate da Maggie Cheung, con quel giusto mix di psichedelia e dark caratteristica dello stile del complesso di Roback.

Il regista ci offre una descrizione lucida e cinica del contemporaneo andazzo e il suo film ha un incipit straordinario, sintesi inquietante dell’infernale parallelo tra il mondo discografico e l’universo della droga. E’ una Parigi dai colori invernali ad ospitare l’odissea di Emily, le sue disillusioni sono narrate con implacabile tono cronachistico, come nella scena quando tenta di farsi ricevere da un crudele Tricky, o quando accetta l’alienante impiego ai grandi magazzini “Printemps”. La macchina da presa indaga spietatamente i volti dei protagonisti impegnati in questa lotta per la sopravvivenza e si sofferma sui rari momenti di tenerezza, tra Emily e suo figlio, sul volto intenso dell’attrice che rimane indelebile nella nostra memoria di spettatori. “Clean” è davvero uno dei migliori film di Assayas, la conferma delle sue capacità di narratore in grado di farci partecipe del male che affligge la nostra contemporanea società di plusvalori e di vuoto emotivo, in forma di vertiginoso concertato (ci viene in mente “L’eau froide” col suo efficace utilizzo di brani Rock anni ’70). Questo bel ritratto femminile d’inizio millennio è una prova che affranca il suo autore dall’incertezza creativa dimostrata nel precedente “Demonlover”, confermandolo come uno dei registi occidentali più attenti e sensibili del cinema di oggi.

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