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Antonio Miccichè, fuga nei metapaesaggi

  • 22 gennaio 2007

Antonio Miccichè (Palermo, 1966) è un pittore di paesaggi. Sin dagli anni Ottanta trova nei luoghi una fonte di ispirazione che trasfigura e svolge con originalità sulle sue tele, restituendo un’immagine alterata e altra di metapaesaggi pervasi da sentimenti nostalgici e stratificazioni della memoria. La mostra personale, allestita a Palermo fino all’11 febbraio presso il Loggiato San Bartolomeo (Corso Vittorio Emanuele 25 ) dal titolo “Piani di Fuga” (visitabile dal martedì al sabato dalle 16.30 alle 19.30; giovedì 10-13 e 16.30-19.30; domenica 10-13), promossa dalla Provincia di Palermo, organizzata da Officine della Memoria e curata da Emilia Valenza, testimonia il percorso artistico e l’evoluzione dell’immaginario dell’artista palermitano attraverso un’ottantina di opere dal 1990 ad oggi. Il linguaggio artistico di Miccichè si nutre della realtà concreta del paesaggio che sulla tela diviene puro sentimento astratto, l’immagine si affranca dal contingente e diventa poesia di colori e segni, definiti, nei primi dipinti degli anni ‘90, da un’incisa struttura geometrica che delimita ed evidenzia i tasselli cromatici di colori primari (blu, rossi e gialli) che compongono i paesaggi.

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In alcune delle opere di questo periodo utilizza la forma del dittico o del trittico per ampliare la sua visione in senso orizzontale, quasi ad allargare il più possibile il raggio del suo sguardo, che però si concentra su micro porzioni di spazio, su «un riquadro, come se la natura fosse osservata per tramite di un mirino, e di essa si conservasse l’immagine sotto il battito di ciglia, un ricordo che sulla superficie del quadro diventa pura invenzione» (E. Valenza). Le tele della fine degli anni ‘90 mostrano un’ulteriore depurazione di segni naturali, per far posto ad una superficie che s’ispessisce nella materia pittorica adesso composta da inserti di cartone e colla, bitumi, colore raggrumato e addensato in cromie che si incupiscono quasi a sottolineare un offuscarsi del sentimento. La superficie pittorica diventa allora una sorta di contenitore della memoria, in cui lo stratificarsi degli accadimenti, lo scorrere lento del tempo lasciano la loro traccia, che sia essa perentoriamente evidente o un labile segno di matita che graffia l’epidermide del dipinto. La tela si trasforma in muro, «una combinazione di pietra e intemperie: la sommatoria dei segni umani. Il muro dipinto da Miccichè nei suoi anni d’esordio è un palinsesto di contributi diversi, che a prima vista potrebbero sembrare un’accozzaglia di colori - ocra, grigio, nero - ma che nello stesso tempo rappresentano le sovrapposizioni della storia» (Roberto Alajmo, autore di un testo in catalogo).

In “Ab continuum Infinitum” (1994), un polittico composta da quattro tele quadrate e una rettangolare, Miccichè compone una musica per immagini, come se seguisse nella scansione dei formati e nel ritmo cromatico delle scolature controllate dei neri, dei rossi, degli ocra una sinfonia immaginaria che con ininterrotta continuità ci conduce verso gli infiniti spazi mentali che l’artista sa creare. Dal 1998 al 2004 prende una pausa dalla pittura e si confronta con l’installazione. Come se idealmente il ductus pittorico, nutrito di elementi materici e oggettuali, non potesse esser più contenuto nella bidimensionalità della tela e cercasse tramite elementi tridimensionali un’ulteriore affermazione della sua perentorietà. Ma il dialogo con la pittura è ripreso ultimamente: alle atmosfere buie e scure, si sono sostituite luci aurorali, bianchi opalescenti, e Palermo e il suo continuo rapporto con il porto e il lungomare è diventata unica protagonista di piccoli disegni a biro che se da un lato hanno il sapore dello schizzo eseguito di getto davanti alla misteriosa bellezza del mare calmo nelle prime luci dell’alba, dall’altro mostrano nell’invadenza dell’orizzonte sulla terraferma e nella minuziosa descrizione di ogni singolo particolare quasi un equivalente figurativo dei suoi primi paesaggi astratti in cui lo sguardo a cannocchiale e la zoomata repentina ci conducono nei luoghi della memoria e dell’utopia che l’artista sa così bene immaginare.

Dichiara l’artista: «La scelta dei porti come soggetto privilegiato delle mie ultime opere è dettata da due motivazioni: una di ordine sentimentale, affettivo, in quanto essi possono essere visti come via d’accesso ma anche di fuga da una città, elemento di collegamento o di separazione, aspetto che mi affascina e mi coinvolge personalmente in quanto la mia formazione giovanile prima di intraprendere la carriera artistica è stata legata a studi nautici. Sento, dunque, molto questo rapporto con il mondo e la gente del mare. L’altro è di ordine formale, perchè i porti delle città, pur contrassegnati da un’atmosfera specifica secondo il luogo, mantengono delle caratteristiche comuni (l’ampiezza dell’orizzonte, le gru, le navi...), costituendo una ‘città nella città’, aspetto, questo della dimensione urbana, che ultimamente ho sentito come fondante della mia poetica, dopo essermi dedicato al paesaggio naturale».

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