MUSICA
AdM, Moni Ovadia recupera con un nuovo spettacolo
In recupero dello spettacolo "Goles. Concerto per cantare l’esilio" che sarebbe dovuto andare in scena lo scorso 27 gennaio per celebrare la "Giornata della memoria", istituita dal Parlamento della Repubblica italiana in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e di tutti i deportati militari e politici, l’Associazione Siciliana Amici della Musica mantiene l'impegno con i propri abbonati ed affezionati ospitando finalmente quel cantore della cultura ebraica nel mondo che risponde al nome di Moni Ovadia: in scena "Di Goldene Medine", martedì 18 aprile al Teatro Politema Garibaldi di Palermo (ore 21.15), dedicato all’influenza della cultura ebraica nel cinema e nella canzone americana del Novecento, nel quale l’artista bulgaro sarà affiancato dal pianista e compositore Carlo Boccadoro, suo partner storico assai amato a Palermo (biglietti 35/25 euro e 15/10 euro, diritti di prevendita 1 euro, presso Master Dischi, via XX Settembre. Per informazioni rivolgersi all’Associazione Siciliana "Amici della Musica", villa del Pigno, via Angiò 27 - Palermo, telefono 091.6373743).
Ma vediamo come lo stesso Ovadia, bulgaro di Povlov, ha raccontato, in una intensa intervista telefonica a Balarm lo spettacolo [qui ci si riferisce a quello originariamente in programma, ndr], il proprio percorso artistico, la propria cultura e sé stesso.
Il rischio c’è sempre, quando c’è un interesse per le cose. Questo vale per la cultura ebraica come per qualsiasi specifica cultura, sia essa quella dei Nativi d’America, degli Africani, o dei Cinesi. Ogni persona che si occupi di cultura ebraica o che si muova nell’ambito di essa deve sapere che ha la responsabilità di essere onesto e non costruire retorica, ideologia, ma cercare di fare delle analisi. Ma l’onestà più "alta" consiste soprattutto nel dichiarare che quello è solo il proprio punto di vista, ricordando che gli ebrei sono degli esseri umani e come tali hanno difetti e pregi. Certo, la cultura ebraica è nondimeno cultura unica e specifica, è la cultura di un popolo millenario che in condizioni di estrema difficoltà e persecuzione è riuscito ad andare avanti e continua ad andare avanti. I popoli che hanno l’età degli ebrei sono spariti dalla faccia della terra, questo è un piccolo popolo che si è completamente diversificato dagli altri. Le cose che diceva Hitler degli ebrei le scriveva già Tacito: "Tutto ciò che presso di loro è santo, per noi è abominevole, e viceversa". Solo che Tacito, essendo molto più intelligente, aveva sentimenti umani, alternando odio a grande ammirazione. Come dire "misfeelings". Emil Cioran, un filosofo rumeno, non ebreo, vissuto in Francia, personalità di grande sofisticazione, ha scritto il più bel saggio sugli ebrei che io abbia mai letto, contenuto ne "La tentazione di esistere" (Adelphi) dal titolo "Un popolo di solitari". E c’è anche un altro saggio folgorante sull’ebraismo, di Claudio Magris, inserito ne "L’infinito viaggiare" (Mondadori).
Oggi, quanto la comunità ebraica è simile alla rappresentazione che di essa se ne è data nel corso di questi ultimi anni?
Gli ebrei di oggi assomigliano molto poco agli ebrei assidici. Io mi occupo di cultura ebraica dell’esilio, soprattutto della cultura degli ebrei dell’Est-Europa espressa in lingua "yiddish", mio ambito di ricerca. Per esempio gli ebrei italiani sono molto lontani da quell’ebraismo: oggi l’ebraismo italiano è molto "appiattito" sulla questione di Israele. Naturalmente ci sono persone libere di pensiero, menti straordinarie, ma l’ebraismo diciamo "comunitario", le istituzioni comunitarie, sono molto appiattite su quella questione, e questo rende molto imbalsamate le dinamiche. Molto più vitale invece è la comunità ebraica statunitense. Basti un dato, riportato da Furio Colombo su L’Unità: il 78% degli ebrei statunitensi ha votato per Kerry, contro Bush. E oggi alcuni dei leader del movimento "no-global" sono ebrei: Noam Chomsky, Naomi Klein di "No Logo", Susan Sontag che è mancata qualche tempo fa, Howard Zinn, autore del memorabile libro "Storia degli Americani". Zinn è uno di quegli ebrei dell’Est d’origine che ha mantenuto quella straordinaria cultura che è stata strappata al cuore dell’Europa con un danno che non possiamo neppure calcolare, cultura da cui sono usciti i Kafka, gli Einstein, i Proust, gli Schoenberg.
Il suo libro "Speriamo che tenga" (Mondadori) ha un’esilarante e sagace introduzione che ne spiega il titolo e presenta l’animo dell’ebreo e la sua cultura: "Secondo calcoli cabalistici, sembra che il nostro mondo sia il risultato del ventottesimo tentativo e che, contemplandolo, l’Eterno abbia sospirato e pronunciato le seguenti parole: «Speriamo che tenga!»". Pensa che questo "ventottesimo tentativo" stia tenendo?
Molto malamente. Credo che il Santo Benedetto sia assai angosciato, per questo non si fa sentire. Io sono un "dubitante" non un credente. Secondo me se il Padre Eterno esiste non sopporta più i credenti. Io mi sono dato un piccolo compito: difendere Dio dai credenti, perché essi non vogliono difendere Dio, vogliono rubargli il posto!
Un altro dei suoi libri è "L’Ebreo che ride" (Einaudi): che ragioni ha, oggi, l’ebreo di ridere?
A guardare come si comportano gli uomini c’è da ridere per non piangere. L’umorismo ebraico del resto non è fatto per far ridere, come certo "cabarettismo" corrivo; l’umorismo ebraico è fatto per far pensare. E voi in Sicilia ne sapete qualcosa, con l’ironia "pirandelliana". Fra le varie espressioni raccolte da Sciascia, non ricordo in quale libro, e che ho recitato in siciliano in uno spettacolo insieme a Roberto Andò, con il quale collaboro molto spesso, fra queste espressioni, dicevo, c’è quella del cieco che dice "cu tuttu ca’ sugnu oirbu, la vìu nivura!" Così come quella del seggio elettorale di Racalmuto, dove si presenta un elettore e tende il certificato elettorale sotto la faccia del presidente di seggio dicendogli: "Ci sputassi vossia!", che andrebbe molto bene per oggi.
Sembra pure che rispetto al periodo di "Oylem Goylem" (trasmesso anche dalla Rai), adesso le sue rappresentazioni siano anche più "riflessive". Per esempio un paio d’anni fa venne a Palermo con lo spettacolo "Tevjie un mir - Tevjie e io" sulla vicenda del lattaio e delle sue figlie e anche là c’era appena un velo di ilarità... C’è qualche ragione?
Quello è stato un esperimento, uno spettacolo di passaggio. Ci sono invece ben altri spettacoli, come "Dybbuk" o anche "L’armata a cavallo", che attestano che non ho mai voluto far ridere, non ho nessun interesse per quello e ritengo che "Oylem Goylem" sia uno spettacolo in cui si ride molto, ma non è comico. Un mio amico, Tonino, mancato due o tre anni fa, omosessuale di grande sensibilità, il quale veniva sempre a vedere i miei spettacoli nella sua città, a Lugo, quando vide "Oylem Goylem" mi disse: "Non so se verrò a vederti tutte le sere come al solito: questo spettacolo è troppo triste, m’ha fatto troppo male". Eppure si rideva tantissimo: ma Tonino aveva capito la vera natura dell’umorismo ebraico. Io ho fatto spettacoli anche molto duri: per esempio "Dybbuk" è sull’Olocausto, realizzato subito dopo "Oylem Goylem", e mandò in tilt molti dei miei spettatori che si attendevano qualcosa di più facile da questo famoso "cabarettista yiddish", il "Woody Allen italiano", tutte definizioni molto facili. "Dybbuk" fu uno spettacolo durissimo, che mandava a casa lo spettatore disfatto dalla fatica emozionale. Lo stesso "L’armata a cavallo", sulla rivoluzione bolscevica, le vittime comuniste del comunismo, ispirato al romanzo omonimo di Isaak Babel’. All’interno della mia modalità di fare teatro compio un percorso, sia stilistico che emotivo: c’è l’aspetto narrativo-affabulatorio, quello rituale, quello epico-narrativo. Quindi non sono affatto un comico o un cabarettista: come insegna la cultura ebraica, si ride sull’orlo dell’abisso, però con la consapevolezza che si è sull’orlo dell’abisso. È connaturato al cammino che ho scelto di percorrere: passiamo dal riso, al tragico, al pianto con estrema naturalezza, perché così abbiamo vissuto.
Woody Allen, Leonard Bernstein, George Gershwin, per citare solo i più noti, fino ad Einstein che suonava il violino: sembra difficile pensare ad un ebreo senza musica... Un fatto genetico?
Sa cosa dicevano degli immigrati russi? Chi non scende con la custodia del violino è perché suona il pianoforte! C’è una ragione: la musica ed il canto sono state per secoli l’unica arte ebraica. Noi abbiamo una proibizione molto forte, forse il più grande tabù ebraico: l’idolatria. Una visione restrittiva che fino alla seconda metà dell’800 ha impedito che si sviluppasse un’arte figurativa ebraica, ossia pittura, scultura, e persino il teatro: i maestri del "Talmud" babilonese erano contrari al teatro, perché una volta esso si rappresentava negli stessi luoghi del circo, e quest’ultimo era considerato abominevole perché vi si inducevano sofferenze agli animali e agli uomini. E anche il teatro è stato erroneamente messo nello stesso "calderone". Quindi il canto e la musica sono state l’unica espressione dell’arte ebraica: per esempio, nel campo del violino, fra la fine del ’800 e il ’900, la stragrande maggioranza dei grandi virtuosi sono stati ebrei. Non si tratta allora di una "eccellenza ontogenetica", ma è stata la condizione socio-esistenziale e culturale che ha determinato questa eccellenza ebraica nella musica.
E che posto occupa la musica nella sua vita?
È molto importante, è il motore anche del tipo di teatro che faccio: spesso parto da suggestioni sonore, addirittura il suono prima della musica.
Passiamo a "Goles": la musica, sempre presente nei suoi spettacoli e nella sua vita di "cantore della cultura ebraica nel mondo", in "Goles" sembra tuttavia assumere una connotazione ancora più definita e precisa.
È un recital musicale, un viaggio nella musicalità ebraica dell’esilio. Credo che per il "Giorno della memoria" parlare della vitalità interiore dei popoli destinati allo sterminio sia importante, perché malgrado il devastante danno, i buffoni nazisti non sono riusciti ad averla vinta. Per esempio c’è un brano, "Zingari", ed io ho due zingari rumeni in orchestra, hanno questa musicalità struggente, profonda, esplosiva. La musica ebraica dell’esilio si sente ancora, addirittura i non-ebrei la amano, ci sono sempre più musicisti non-ebrei straordinari che suonano questa musica. Uno dei miei gruppi preferiti è olandese e si chiama "Goym", che significa "gentili", cioè "genti": "goy" vuol dire popolo ed è la definizione con cui gli ebrei chiamano gli altri, un po’ come i Rom chiamano il non zingaro "gadgé". Senza che in "goy" vi sia alcuna accezione dispregiativa: c’è un passaggio della Torà in cui Dio dice agli ebrei "Non montarti la testa, sei anche tu un ‘goy’", nel senso di popolo.
E anche nella definizione latina, mutuata dal greco "oi barbaroi" si intende semplicemente lo straniero più che l’attuale barbaro, senza accezione negativa.
È infatti la stessa radice sanscrita "br-br" che indica colui che non pronuncia bene la lingua perché non la possiede, non ne ha la padronanza!
Perché ha scelto "Goles" per celebrare la Giornata della Memoria?
Per la verità non l’ho scelto io, ma l’associazione Amici della Musica, che ci ha invitato a Palermo: in quanto associazione musicale ha voluto questo repertorio, soprattutto un recital musicale, molto caldo, esplosivo, una bella musicalità. L’orchestra è ben affiatata, funziona molto bene.
E perché la trasformazione della "Theater Orchestra" in "Moni Ovadia Stage Orchestra"?
L’orchestra originariamente nasce come "Theater Orchestra", quando lavoravo assieme ad un produttore con il quale non sto più. Quindi, dato che avevamo trovato il nome insieme, pur non essendoci un copyright, per senso di onestà io ho scelto di cambiare nome, visto che comunque ho creato io la "Theater Orchestra", essa è nata con il mio lavoro. Il nuovo produttore ha voluto allora aggiungere il nome "Moni Ovadia" per far capire che essa non ha una veste propria e ritrova occasionalmente a collaborare con me, ma è proprio la mia orchestra. Si tratta di musicisti che teatralmente si sono formati con me, alcuni sono con me da dieci anni, anche se della formazione originaria sono rimasti in due. Ma non esiste una "Stage Orchestra" fuori dal mio lavoro.
Che significato assume oggi per lei la "Giornata della memoria"
Ma la "Giornata della memoria" non è stata istituita per gli ebrei, è stata istituita per l’Europa, per cui per me non riveste alcun significato particolare, perché io lavoro con la memoria e la memoria è una forma culturale che è strumento di indagine per costruire il futuro, per una società di giustizia, di fratellanza, di libertà, di pace, di uguaglianza sociale. Per cui le cose che dico, io le so già. La "Giornata della memoria" serve ai giovani, alle generazioni future, perché possano vivere in un mondo non orrendo come quello precedente, perché quello che è successo può capitare e invece non deve più succedere. La memoria è diversa dalla storia, perché la storia è un ventre molle che ingoia tutto. La memoria è altra cosa, è funzione attiva di un’esistenza, è strumento per vivere. L’esempio che faccio agli studenti è di immaginare che io prenda uno di loro e lo metta in una macchina che gli cancelli la memoria: anche se tutto il resto in lui rimanesse uguale, potrei fare di lui tutto ciò che voglio, potrei dirgli qualunque cosa e lui non potrebbe smentirmi. La memoria è strumento per navigare nel futuro. La storia organizza gli eventi e li interpreta, la memoria deve invece diventare fibra, carne e sangue dell’uomo, per vivere. Questa è la memoria ebraica.
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