STORIA E TRADIZIONI
Le nobili officine del "Tiraz" a Palermo: un tesoro (antico) tra seta, filo d'oro e gemme
Ruggero II aveva riservato a sé la produzione delle mirabili stoffe di seta tempestate di gemme, destinate alle cerimonie e allo splendore della sua corte
Guanti di Ruggero II
Ruggero II aveva riservato a sé la produzione delle mirabili stoffe di seta tempestate di gemme, destinate alle cerimonie e allo splendore della sua corte.
Vicino al suo Palazzo aveva fatto realizzare il Tiraz, una sorta di atelier con una serie di laboratori e opifici annessi, dove probabilmente avveniva la tessitura della seta, la lavorazione del filo d’oro, la fusione dei metalli. Una descrizione del Tiraz ce la fornisce lo storiografo Hugo Falcandus, suo contemporaneo.
«Quelle nobili officine adiacenti al palazzo, ove i bozzoli di seta si assottigliano in fili di vario colore e si adattano ai vari generi di tessuto [...] nelle quali l'oro è intessuto con la seta, e la multiforme varietà delle figure è adornata di gemme rilucenti. Le perle, poi, o intere vengono incastonate in cestelli d'oro, o perforate sono congiunte insieme da un tenue filo [...]».
Fece arrivare a Palermo i tessitori più esperti dell’epoca da Tebe, Corinto ed Atene, e li mise a lavorare fianco a fianco con gli arabi, i siciliani e forse anche con i persiani. Grazie a questo trasferimento di know-how, la produzione cosmopolita del Tiraz raggiunse livelli altissimi ed un primato incontrastato in tutta l’area del Mediterraneo.
Gli splendidi manufatti realizzati nelle "nobili officine" arricchirono, nel tempo, il magnifico Tesoro della Reggia. Purtroppo, pochissimi di essi si trovano ancora a Palermo, nella maggior parte dei casi, infatti, si trovano in stato di frammento o se ne sono perse le tracce, moltissimi sono finiti nei tesori dei musei, altri nelle chiese o in collezioni estere.
Già nel 1194, molti degli oggetti realizzati nel Tiraz furono portati via da Enrico VI di Svevia, marito di Costanza d' Altavilla e padre di Federico II.
Egli, dopo che aver preso possesso dei domini normanni, riuscì a impadronirsi di una parte dell’immenso tesoro reale. Tant’è vero che gli servirono più di centocinquanta bestie da soma per trasportarlo da Palermo fino al castello di Trifels in Germania.
Alcuni dei preziosi manufatti sottratti da Enrico VI si possono ancora oggi ammirare nel museo del Tesoro Imperiale di Vienna. Tra questi risalta magnificamente il favoloso manto regale di Ruggero II (ne abbiamo parlato qui), che fu certamente realizzato nel Tiraz nel 1134.
Vi si legge, infatti, la seguente dicitura: “Eseguito nel Tiraz reale di Palermo dove la felicità e l'onore, il benessere e la perfezione, il merito e l'eccellenza hanno loro dimora; di grandi liberalità, d'alto splendore, della reputazione, delle speranze; possano i giorni e le notti ivi scorrere nel piacere senza fine né mutamento nell' onore, la fedeltà, l'attività diligente, la felicità e la lunga prosperità, la sottomissione e il lavoro che conviene. Nella capitale della Sicilia, l'anno 528”.
Il 528 (datazione araba) corrisponde appunto al 1134, quattro anni dopo l’incoronazione di Ruggero II a re di Sicilia, avvenuta a Palermo nel dicembre del 1130. Oltre al manto di re Ruggero, solamente un altro manufatto fu certamente realizzato nel Tiraz, si tratta dell'alba di Guglielmo II, anch’essa conservata a Vienna.
All’interno dello stesso museo si trovano altri splendidi oggetti presumibilmente realizzati nel Tiraz palermitano. Tra di essi è degna di nota una la cosiddetta “tunicella blu” o dalmatica, che veniva indossata sotto l'alba durante l'incoronazione, realizzata in seta graffiata con ricami in oro e perle, ha una lavorazione molto vicina a quella del manto di Ruggero II.
Sempre nello stesso museo sono conservati dei magnifici guanti in seta rossa tempestati di gemme che probabilmente furono realizzati nel Tiraz nel 1220, per l’incoronazione di Federico II di Svevia, questi sono stilisticamente legati alla “corona” di Costanza d’Aragona.
Fortunatamente la "corona" di Costanza è ancora custodita a Palermo e la si può ammirare all’interno del Tesoro della Cattedrale.
Lo splendido manufatto - decorato in oro, argento filigranato, smalti ad alveolo (cloisonnèe), perle, pietre policrome e granati – non è una corona, bensì un "camaleuco", ovvero una cuffia con pendagli laterali di tradizione bizantina molto simile agli esemplari raffigurati nei mosaici, che probabilmente veniva usata fin dai tempi di Ruggero II.
Un altro manufatto, probabilmente realizzato nel Tiraz, di cui oggi il Tesoro della Cattedrale di Palermo detiene solo un piccolissimo frammento, è finito nel 1878 al British Museum di Londra.
Si tratta di un preziosissimo frammento (19 per 24 cm) della veste funeraria di Enrico VI di Svevia, documentato dallo storiografo Francesco Daniele, che assistette alla seconda apertura dei sepolcri regali del duomo di Palermo, avvenuta nel 1781 in occasione della ristrutturazione della cattedrale.
All’epoca l’apertura dei sarcofagi reali contribuì al risveglio dell'interesse per i tessuti di età normanno-sveva, molti erano infatti gli studiosi presenti, che rimasero stupefatti per la magnificenza delle vesti e degli ornamenti dei sovrani.
Successivamente, nel corso dell'Ottocento, l'attenzione verso i tessuti medievali siciliani si accrebbe ulteriormente, alimentata anche dal rinnovato interesse per le arti applicate.
Ma la grande fortuna del patrimonio tessile siciliano di epoca medievale coinciderà, fatalmente, con la sua stessa rovina. La nascita dello stato italiano e la successiva laicizzazione dei beni ecclesiastici, darà la possibilità a una folta schiera di collezionisti italiani e stranieri di accaparrarsi con irridente facilità un gran numero di esemplari preziosi che sino ad allora erano stati gelosamente conservati all’interno di chiese e monasteri.
Contro la progressiva dispersione e alienazione del patrimonio tessile siciliano di epoca normanno-sveva avvenuta all’indomani dell'avvento del nuovo stato nazionale, si battè con passione il grande archeologo Antonino Salinas, registrandone in diverse occasioni le tragiche perdite.
Emblematica fu una missiva inviata nel 1871 al grande storico arabista Michele Amari, in cui il Salinas lamenta la quasi totale scomparsa della veste di Ruggero II conservata nella cattedrale di Cefalù. Lo studioso racconta che, al momento di mostrargli "la cassetta con quel cencio", il parroco esclamò: "Quannu era picciottu ci nn'e-ra tanta, ma poi chi volli? Si tutti li 'Ngrisi chi vennu sinni porta nu un pezzu!” (Quando ero ragazzo ce n'era tanta, ma poi che vuole? Se tutti gli Inglesi che vengono se ne portano un pezzo!)".
Come se non bastasse, bisogna tenere presente che alla progressiva dispersione della tunica ruggeriana contribuì anche la l’ignoranza della devozione popolare. Una volta l'anno, infatti, durante la commemorazione di Ruggero II, le sue vesti venivano esposte al pubblico e i devoti erano soliti portarne via piccoli frammenti, quasi fossero le reliquie di un santo!
I collezionisti di fine Ottocento trovarono, dunque, campo libero e non si posero il minimo scrupolo nell’accaparrarsi ogni genere di testimonianza che potesse accrescere le loro collezioni.
Primo fra tutti il tedesco Franz Bock, canonico onorario della cattedrale di Aquisgrana, che fu soprannominato lo "studioso con le forbici" per l'assoluta spregiudicatezza con cui s’impossessava di scampoli di tessuto, arrivando a ridurre i teli in pezzi sempre più piccoli da scambiare con altri collezionisti.
Allo stesso modo si comportarono gli antiquari, che frammentarono i teli più grandi, smontandoli e ritagliandoli, per avere una maggiore quantità di materiale da poter vendere e ottenere, così, un maggiore profitto. È proprio grazie a questi “furti autorizzati” che in Europa, nella seconda metà dell’Ottocento, nasceranno i principali musei di arti decorative, spesso affiancati da scuole professionali specializzate.
Da questi immensi campionari decorativi trarranno ispirazione i seguaci del movimento Arts and Crafts di William Morris e, successivamente, anche la manifattura Florio e i raffinati decoratori dello stile Liberty palermitano come Salvatore Gregorietti.
Negli anni ’50 del Novecento, la storica dell’arte Maria Accascina studiando le sete siciliane del Tiraz constaterà ancora una volta le gravi perdite subite dal patrimonio tessile siciliano.
"Isolati negli armadi o chiusi nelle casse, stretti come preparati biologici tra vetrini o cellofan, questi frammenti di preziose stoffe restano come detriti inerti di antiche civiltà". (Maria Accascina, Le sete siciliane dai "tiraz" normanni al secolo S XVIII, dattiloscritto, 1952).
Un patrimonio che dovremmo oggi, con orgoglio, rivendicare.
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