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La storia che precipita in tragedia: in Sicilia una villa diventò campo di concentramento

Nota come "casina rossa", questo luogo ha una storia particolare che affonda nell'orrore durante il periodo della seconda Guerra mondiale: ecco le sue vicissitudini

  • 17 giugno 2020

La casina rossa di Scicli

Se fosse un film dell’orrore, sarebbe "La casa dalle finestre che ridono", il capolavoro di Pupi Avati del 1976. Lì era la Bassa Padana, un paesaggio di umori sonnolenti e di sottotesti inquietanti. Sarebbe la villa scelta per ambientare le sequenze più spaventose, un set che esiste davvero e si trova a Comacchio, in provincia di Ferrara, a richiamo di memoria per quella stagione libera e scorrettissima del cinema italiano degli anni ’70.

Sarebbe Villa Boccaccini, abbandonata e distrutta, fagocitata dalla stessa natura che la protegge e insieme la isola. Sarebbe, ma non è. Perché qui siamo in Sicilia, nella zona del ragusano, una delle campagne più belle di tutta l’Isola. Chi lascia il mare, da quelle parti, si addentra a una terra fertile e scura, a tracciati sinuosi scortati a perdita d’occhio da lunghissimi muriccioli a secco, ad antiche residenze estive di grande pregio che declinano a una morte lenta.

Siamo tra Modica e Scicli, in una villa che non c’entra nulla con la piccola nobiltà di provincia, e non ha nemmeno un nome, quasi volesse rimanere indistinta in quel paesaggio di rara bellezza. La casina rossa, così gli abitanti del luogo chiamano questa strana villa abbandonata. Fabrizio Ruggieri, con il suo collettivo di esploratori, l’ha visitata, e, soprattutto, ne ha approfondite le vicende.
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È una storia che comincia come qualsiasi altra storia. Siamo alla miniera di pece di Castelluccio-Streppenosa, simbolo storico della Sicilia Orientale, in un’area mineraria sfruttata per secoli, in modo industriale, da numerose società straniere. Un luogo ammantato di strane leggende e di echi visionari, che ha finito per diventare lo scenario di una tragedia della storia, un paesaggio di tortura e di morte: un groviglio di barbarie inimmaginabile.

La villa è stata costruita, a cavallo dei due secoli passati, dalla famiglia tedesca Kopp, concessionaria per l’utilizzo di questo bacino minerario cui facevano capo enormi interessi economici. Lo strano nome, involontariamente cinematografico, le proviene dal colore dei muri esterni e della facciata, oggi quasi non più visibile. Per l’epoca era una costruzione all’avanguardia, progettata a chiari fini industriali, con una teleferica che attraversava l’intera vallata accorciando i tempi di trasporto del bitume e massimizzando gli utili.

L’edificio d’intorno, nei bassi, ospitava gli operai, i cosiddetti picialori, comprimari di massa stremati da un lavoro avvilente e difficoltoso. È durante la prima guerra mondiale che il governo italiano trasferisce al demanio regionale la gestione dell’area, e, non più sfruttata la miniera, anche la casina rossa viene abbandonata restando chiusa per lunghi anni.

Sono i tedeschi a riappropriarsi della zona, alle soglie della seconda guerra mondiale, con l’elmetto nazista e la divisa delle SS. Militarizzano il sito e sfruttano nuovamente la miniera, con tecniche più intensive, e soprattutto aprono un piccolo campo di concentramento.

Una cosa mostruosa, lì, in quella zona, in quella campagna lussureggiante, in un angolo di Sicilia dove la storia precipita in tragedia. In realtà, da alcune indagini più approfondite presso gli enti pubblici di tutela del patrimonio storico e del paesaggio, pare sconosciuta la destinazione della casina rossa a campo di concentramento, quanto invece è certo che dal 1942 sino allo sbarco delle forze di liberazione la villa fu residenza del comando tedesco.

E però – secondo le ricerche condotte dagli esploratori – alcuni anziani dei comuni limitrofi raccontano un’altra storia, un dolore inciso a carne viva nella loro memoria. Dicono che la villa avesse una funzione strategica di controllo dell’intera vallata, e che presto assunse un aspetto macabro e inatteso nel momento in cui i tedeschi la riconvertirono a luogo di reclusione per dissidenti politici e partigiani.

Ma c’è di più, perché durante i rastrellamenti venivano fermati e tradotti nella casina rossa anche gli omosessuali della zona, in alcuni casi portati dagli stessi genitori per una conversione forzata alla virilità perduta. Dicono che i prigionieri venissero torturarti fino alla morte, evirati e resi eunuchi. La storia che diventa mito, e il mito che nasconde tracce di realtà occulta. Chiacchiere, leggende di paese, racconti proferiti a bassa voce, tenendosi lontani da quel luogo.

Pare che un’anziana abbia riferito che nella villa siano stati condotti ventitré omosessuali, tutti provenienti dal comune di Scicli, e che di loro nessuno abbia fatto ritorno. In segno di guarigione avrebbero dovuto intrattenere rapporti sessuali con donne in presenza dei loro carcerieri, in un film che adesso sembra "La caduta degli dei" di Luchino Visconti.

Come che sia, dopo la guerra la villa fu ancora una volta chiusa, e con essa gli orrori che si erano consumati al suo interno, e per uno strano segno del destino riconvertita a scuola, prima del suo definitivo abbandono. Avrebbe dovuto diventare sede del Museo della Pietra degli Iblei, ma al momento è un edificio desolato e impaurente, con il tetto pressoché crollato e un generale ammaloramento delle pareti.

È lì, la casina rossa, in mezzo a quella campagna, a due passi dalla miniera abbandonata, e con il tempo anche i suoi segreti, sussurrati e incerti, finiranno per morire con lei, rimanendo un giorno come un cumulo di conci di pietra al sole.
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