STORIA E TRADIZIONI
La Sicilia horror, tra miti e (veri) misfatti: le 5 creature che non vorresti mai incontrare
Anche la tradizione siciliana ha molteplici storie che si basano proprio sulla paura, con diversi miti, racconti che non hanno nulla da invidiare alla letteratura gotica
Cavalli senza testa (disegnati da LizzerFizzer)
In realtà anche la nostra tradizione siciliana presenta molteplici storie che si basano proprio sulla paura, con diversi miti, racconti e leggende che non hanno nulla da invidiare ai vari racconti provenienti dalla letteratura gotica o neogotica.
Secondo alcuni esperti, la nostra terra sarebbe così tanto ricca di "materiale orrorifico" e dell’occulto, che in realtà l’origine del genere dovrebbe attribuirsi a migliaia di anni prima rispetto alla data solitamente utilizzata dagli esperti, per definire la nascita dell’horror: il 1818, anno di uscita di Frankenstein, il primo racconto dell’orrore, scritto da Mary Shelley.
Consapevoli che è impossibile elencare tutti i racconti dell’orrore appartenenti al folklore siciliano in poche righe, per rispondere a tali domande con questo articolo inauguriamo quindi una piccola serie di approfondimenti che tratteranno le storie più cupe e note della nostra tradizione letteraria e orale, ribadendo che per quanto queste siano solo leggende, molte di esse nascono da veri misfatti, di cui l’origine è umana.
Tralasciando tutti i racconti classici che si basano sulla creazione di mostri mitologici che abitavano la Sicilia - come Polifemo e i Ciclopi, Scilla e Cariddi, Tifone e Ganimede e tanti altri - tra i personaggi più importanti della cultura siciliana abbiamo u sugghiu, l’antesignano perfetto del chupacabras messicano.
Questo mostro era una creatura anfibia con la pelle da rettile e portamento antropomorfo, che essendo dotato di una grossa bocca piena di ventose, riusciva a succhiare via la faccia delle sue vittime e a ribaltare le navi che accidentalmente lo catturavano con le reti.
Presente all’interno del nostro folklore da secoli, cominciò ad avere una maggiore risonanza mediatica nel 1789, quando un quotidiano locale edito a Catania ne descrisse un avvistamento, nei pressi del mare antistante il capoluogo.
Negli anni 80 del secolo scorso invece la creatura sarebbe stata avvistata presso il borgo marinaro di Torre Archirafi a Riposto, seppur per tutto l’Ottocento u sugghiu avrebbe fatto delle vittime lungo la costa settentrionale dell’isola, con diversi incidenti segnalati a Messina, Cefalù e Palermo. La creatura, consapevole della sua mostruosità, sarebbe molto longeva ma non indistruttibile.
Porterebbe infatti i segni delle pagaiate con cui alcuni marinari locali avrebbero cercato di difendersi nel corso degli anni, mentre a di Brolo gli anziani spesso affermano che “è na cosa misteriusa e troppu laria a taliari ca si sta r’ammucciuna”.
Capace di strappare la faccia alle sue vittime e grande mangiatore di carogne, visto il suo collegamento all’acqua può darsi che il suo mito provenga dagli antichi racconti dei mostri marini, seppur la sua figura antropomorfa potrebbe riportare in mente la sorte di qualche naufrago, graziato dalla morte dal dio del mare ma non dalla decomposizione.
Il suo mito infatti può anche derivare dal ghul di origine araba, che nel corso del tempo avrebbe dato alla luce il concetto stesso dei cadaveri “non morti”. Antesignano degli zombie, il mito dei ghul in effetti giunse in Sicilia, durante la dominazione fatimide.
Un altro mostro tipicamente siciliano è la Marabbecca, una creatura mostruosa che in origine era una donna bellissima che vive nei pozzi e nelle cisterne d’acqua. Questa creatura, antichissima e che presenta delle similitudini con il personaggio di IT di Stephen King, si nasconderebbe sotto terra perché sensibile al sole ed essendo una grande divoratrice di carne umana, ingannerebbe i bambini e gli ubriaconi con la sua voce suadente, convincendoli a buttarsi dentro i pozzi per ricevere grandi doni.
Anche in questo caso questa creatura deriverebbe dal folklore arabo instillato in siciliano sin a partire dal medioevo, tanto che la stessa parola "marabecca" ha una chiara derivazione araba, mentre il mostro in sé come morfologia non ha definizione. Il suo mito allude alla paura ancestrale dei bambini e delle madri di cadere dentro i pozzi e potrebbe essere stata utilizzata dalle società rurali per insegnare alle persone a prestare attenzione.
La Biddrina invece è un mostro che appartiene al folklore della provincia di Caltanissetta.
Secondo la leggenda, era un serpente che aveva le dimensioni di un drago, alto almeno sei metri, che perlustrava le campagne attorno alla città, andando a caccia di bambini e viandanti.
Talvolta, se incontrava una donna, l’aggrediva e invece di mangiarla la circondava con le sue spire, per poi soffocarla dopo giorni, intrappolandola all’interno del suo nido.
La Biddrina aveva inoltre la particolarità di bere l’acqua sulfurea delle miniere che erano già presenti ai tempi degli antichi romani, tra Enna e la stessa Caltanisetta.
Immune ai danni fisici e attratta dal fuoco, sempre secondo il mito questa creatura nasceva dopo che una biscia rimaneva nascosta per sette anni sotto terra, cibandosi degli sfortunati carusi che lavoravano notte e giorni per estrarre i preziosi minerali. Il suo nome particolare oggi viene usato anche nel dialetto per apostrofare donne particolarmente cattive, capaci di uccidere i figli e i mariti delle loro vicine, per colpa della gelosia.
Secondo sempre la leggenda, gli ultimi avvistamenti di questo enorme serpente, in grado di sterminare intere famiglie di minatori, sono avvenuti a Cammuto - dove esiste scolpita in una fontana la sua figura con la data dell'evento - a Cosciu negli anni sessanta e nella valle del Salso.
Le Mayare sono invece delle figure femminili equiparabili alle streghe, che da diversi secoli colmano di terrore gli incubi degli agricoltori e dei mercanti siciliani. Non sempre legate alle forze demoniache, queste donne molto potenti e longeve erano in grado di trasformarsi in alcuni animali e venivano ricercate per eliminare il malocchio o le maledizioni lanciate da altre Mayare.
Raffigurate come delle belle signore a loro agio nella natura, vennero perseguitate dall’inquisizione spagnola, tanto che allo Steri di Palermo – sede regionale di questa istituzione – ne sono state imprigionate e uccise diverse, accusate di aver favorito il maligno.
Di solito l’investitura di una Mayara avveniva tramite delle madrine che a loro volta avevano conoscenze magiche, che prima di Natale o dopo il solstizio d’estate la battezzavano con la magia.
Alcuni racconti spiegano anche che qualora una di queste donne fosse stata importunata dai viandanti, la magia della natura si sarebbe ribellata nei confronti dei molestatori, tramite l’arrivo di uno stormo di corvi e di api che avrebbero tentato di salvare la vita della Mayara.
Un’altra leggenda narra invece che nel 1700 a Catania, nell’attuale via dei Crociferi, si incontrassero briganti, criminali, amanti, esperti di esoterismo e cospiratori.
E che talvolta, quando la luna era piena, dei cavalli senza testa, grondanti di fango e sangue, comparissero all’improvviso dinnanzi alle persone, ricordandogli la sorte (la morte) a cui sarebbe toccati, nel caso in cui sarebbero stati catturati. Una notte un giovane decise di verificare se questa storia fosse vera, promettendo di attraversare la strada nel cuore della notte e di puntare un chiodo sotto l’arco dell’abbazia di San Benedetto.
Ciò avrebbe infatti permesso a tutti i suoi amici di capire che aveva superato l’impresa e che nessuna orribile manifestazione era giunta ad ammonirlo di tornare indietro. In effetti il ragazzo riuscì a piantare il chiodo nel punto indicato, ma un pezzo del suo mantello si aggrovigliò attorno al chiodo, simulando la stretta di un essere demoniaco.
Sentendosi ad un passo della morte, il ragazzo continuò a strattonare il mantello, ma visto che questo era stato prodotto con fibre di alta qualità non si strappò e il giovane morì di infarto, circondato dall’oscurità, credendo che una delle teste dei cavalli redivivi avesse preso a morsi il suo mantello.
Ancora oggi si racconta che ci vollero anni affinché qualcuno si convincesse ad attraversare Via Crociferi di notte, per non parlare di come ancora oggi, a notte fonda, sia possibile udire gli zoccoli di un cavallo che grattano sull’asfalto…
Luigi Capuana e Luigi Natoli sono invece fra i più importanti narratori moderni della nostra letteratura.
Il primo catanese, natio di Mineo, e il secondo palermitano, furono tra i più grandi innovatori della letteratura popolare siciliana ed entrambi, a modo loro, si sono avvicinati alla letteratura gotica dell’orrore di metà e fine Ottocento, anche perché appassionatisi alla corrente gotica di stampo inglese, che cominciò a pervadere l’intera Europa dopo il successo dei racconti di Mary Shelley, John Polidori e Bram Stoker.
Capuana scrisse infatti nel 1906 – pochi anni prima della sua morte - un particolare racconto, spesso dimenticato all’interno dei manuali di letteratura italiana a scuola.
Si intitola Un vampiro e prende liberamente ispirazione al primo racconto della letteratura contemporanea ispirato alla figura dei vampiri, ovvero a “Il vampiro” di Polidori del 1819. Per quanto breve, questo racconto è molto indicativo del fatto di come Capuana si divertisse enormemente a sperimentare sugli stili e contenuti delle sue opere, tanto che questo racconto viene considerati il primo racconto horror della letteratura italiana. Parla ovviamente dell’incontro casuale fra un vampiro e due sprovveduti e letto al giorno d’oggi può donare sorprese.
Luigi Natoli invece scrisse un intero romanzo su uno dei casi di cronaca nera più famosi della Sicilia pre risorgimentale. Ne La Vecchia dell’aceto lo scrittore palermitano infatti descrive in maniera romanzata la vicenda settecentesca della famosa Giovanna Bonanno, la prima serial killer della storia italiana.
Una donna condannata a Palermo per veneficio, stregoneria e per aver indotto diverse nobili e ricche palermitane ad uccidere i mariti per andare a vivere con i loro amanti, tramite una pozione segreta che chiamava “aceto”. La sua vicenda storica si rifà anche alla tradizione di Giulia Tofana, altra palermitana che presso la corte di Filippo IV di Spagna nella prima metà del 1600 cominciò a vendere i suoi veleni, prima di essere processata e condannata a morte (dopo mesi di torture e stupri) a Roma, presso Campo de Fiori, nel 1659.
L’ultimo racconto che vogliamo citare in questo articolo è stato scritto invece da Luigi Pirandello, il grande scrittore agrigentino che vinse il premio Nobel per la Letteratura nel 1934. Egli infatti scrisse nel 1931 il racconto Male di luna, che affronta uno dei vecchi cari temi del folklore europeo e siciliano: la licantropia.
Già all’epoca degli antichi greci e romani infatti si credeva che in Sicilia vivessero degli uomini capaci di trasformarsi in lupi, quando perdevano il controllo dinnanzi alla luce della Luna Piena, ma abbiamo dovuto attendere la novella di Pirandello per avere uno sguardo ironico sulla condizione tragica e tremenda di questi esseri maledetti dalla natura.
Il racconto parla del lupo mannaro Batà e della sua povera moglie Sidora e di come i due devono riuscire a trovare un patto, per convivere insieme.
Secondo alcuni studiosi, inoltre, il romanzo “Uno, Nessuno, Centomila” del 1926 può essere letto con una chiave di lettura horror, visto che l’intera opera rispetta i classici stilemi dell’horror psicologico che più tardi sarebbero comparsi soprattutto in America.
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