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La Palermo dei mercati e un po' anche dei nonni: tra fumi e banconi, la storia di Toni

Da quando quel luogo da palude era diventato mercato, lì si poteva trovare tutto ciò a cui si poteva pensare e anche quello che mai poteva venire in mente

  • 7 gennaio 2019

La Vucciria a Palermo

L'anziano seduto sulla cassetta di plastica accese una sigaretta e alzò gli occhi, quasi volesse seguire il fumo azzurrognolo che soffiava dalla bocca.

Nuvole nere si addensavano in cielo.

«Se il gallo canta in numero dispari, vuol dire che piove presto» disse.
«Che vuol dire in numero dispari? E poi, chi lo sente il gallo?» chiese Toni.
«Anche se la luna nella sua prima fase è rivolta verso l'alto pioverà» disse l'anziano guardando ancora il cielo.

Toni già non lo ascoltava più. Controllava la bombola, accendeva il fornello, faceva scioglie lo strutto, affilava il grande coltello, ammonticchiava i panini in file parallele, riempiva i contenitori con il sale, beveva Forst e tagliava i limoni in spicchi uguali.

Come ogni giorno, come tutti i giorni, le stesse azioni che compiva suo padre, e il padre di suo padre prima ancora.

Alcuni ritengono che il modo migliore di svolgere un lavoro sia in maniera meccanica, specialmente se il compito è ripetitivo e sempre uguale. Automatismi che il cervello impone in modo da poter pensare ad altro, mentre il corpo è impegnato.
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La piazza era piena di venditori di ogni tipo, le loro abbanniate facevano a gara. Il mercato si svegliava presto, primi arrivavano i pescatori che sistemavano i pesci su lastre di ghiaccio: calamari, tonni, orate, polpi, seppie, affettavano il pesce spada, sgusciavano i gamberi, dopo un’ora i contadini esponevano le ceste di frutta, i mazzi di verdure: i tenerumi, i broccoli, i finocchietti selvatici, le erbe aromatiche, l’addauro, il basilico, il prezzemolo, l’origano, l'alivari facevano piramidi di olive e passaluna, vendevano pomodori secchi, bottarga, mandorle, pistacchi e noci.

A metà mattinata giungeva lo sfincione appena sfornato. Solo nel primo pomeriggio arrivavano i panellari, gli stigghiolari e i meusari.

Da quando quel luogo da palude era diventato mercato, lì, si poteva trovare tutto ciò a cui si poteva pensare, e anche quello che mai poteva venire in mente.

«Per conoscere che tempo farà, bisognerà stare attenti ai giorni che vanno da Santa Lucia a Natale, se questi saranno nuvolosi, piovosi o soleggiati tali saranno i corrispettivi mesi dell'anno».

Toni affettava in maniera distratta un grosso pezzo di meusa, la voce di suo nonno faceva da sfondo al rumore del coltello sul tagliere.

«Toni!» lo richiamò «Non distrarti, non conta ciò che si pensa, o ciò che si fa, ma l’intensità con cui si pensa e con cui si fa».
Le urla provenienti dal mercato sembrarono zittirsi.

«Noi siamo meusari, scegliamo la carne fresca dal carnezziere, i limoni più grossi al mercato, puliamo a fondo le incrostazioni dalle padelle, diamo da mangiare alla gente, e se non hanno i soldi, gli diamo da mangiare lo stesso. Prova a dirlo a tuo padre, parlare con lui è come versare da bere a chi non ha un bicchiere, l’acqua cade a terra e fa solo fango. Tu sei diverso, non hai ancora un contenitore, ma l’acqua renderà più fertile il terreno».

Toni rimase zitto, fermo, cercando di cogliere quelle parole, poi si girò verso il primo cliente.

Ogni volta che preparava il banco della meusa ricordava la voce rauca di suo nonno. Anche quel giorno, un giorno di molti anni dopo.

A quell’ora i venditori iniziavano a rientrare la merce e i cani recuperavano da terra qualunque cosa potessero mangiare.

Prima che arrivasse il camion della munnizza che caricava i resti dei pesci, le ossa delle macellerie, la frutta marcia, i cartoni, le cassette di legno e pulisse le sozzure della piazza. L’ora in cui la Taverna Azzurra era già piena.
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