TRADIZIONI
"A tavula è trazzera" (anche per i nobili): la grande cucina nei palazzi storici di Palermo
Con l'arrivo dei Borbone la Sicilia, che vanta la presenza di un antico ceto nobiliare, reinventa nuovi stili di vita per confermare il proprio prestigio politico e sociale
La cucina di Palazzo Conte Federico di Palermo (Foto da TurismoPalermo.it)
In tutti i tempi e a ogni livello sociale a tavola si tessono accordi e alleanze perché, come afferma il famoso e antico detto siciliano, la tavola è via di passaggio e dunque luogo di incontri e scambi.
E nel XVIII secolo con l'arrivo dei Borbone (1734) la Sicilia, che vanta la presenza di un antico ceto nobiliare ampiamente rappresentato in tutta l'isola, deve reinventarsi nuovi stili di vita per confermare il proprio prestigio politico e sociale.
Aumenta l'esigenza di ricevere con sfarzo, ospitare illustri stranieri, dare feste, offrire banchetti per centinaia di commensali. E così le cucine, che occupavano di solito nelle dimore aristocratiche il piano terreno, con l'avvento della monarchia borbonica reclamarono maggiori spazi e perciò un cambio di disposizione.
Gli spazi destinati alle cucine potevano attraversare in larghezza anche tutto il corpo del Palazzo, ai cui appartamenti erano collegati con innumerevoli scalette di servizio, e si aprivano sulla strada di solito secondaria per lo scarico merci.
Scrive don Francesco Alliata, ultimo principe di Villafranca: “Dalla cucina, proprio a fianco della scaletta, partiva un montacarichi tutto in legno, robusta corda e montanti laterali di scorrimento, che portava le vivande fino all'ultimo piano".
Accanto alla cucina era il “riposto", locale-dispensa per le provviste alimentari, razionalmente predisposto per contenere ogni genere di derrate (e proteggerle da topi e insetti!), ben aerato e riparato dal sole.
Occorre anche tenere presente che il “riposto” all'epoca doveva essere abbastanza ampio da contenere i tributi in natura che gli affittuari dei feudi dovevano al signore oltre ai canoni di affitto in denaro.
Cuore pulsante del Palazzo è dunque la cucina-fucina, un luogo di fondamentale importanza nel palazzo siciliano del Settecento ma non adibito al pranzo nobiliare che era prevalentemente occasione di carattere sociale piuttosto che privata.
Una vera e propria rappresentazione sociale emerge a tal proposito dalla descrizione di Renata Pucci Zanca in “La Sicilia dei Marchesi e dei Monsù”.
"Troverete tracce di questi regni anche nei grandi palazzi palermitani come Palazzo Gangi, Butera, Mazzarino, Mirto, Camporeale, Villa Tasca a Camastra, Villa Trabia, Villa Bordonaro, e nei palazzi Sgadari a Gangi, Pucci e di Granara a Petraia, Carpinello a Polizzi. Per l'aristocrazia cittadina, a differenza di quella campagnola, non era previsto, io credo, che la padrona di casa penetrasse giù agli inferi.
Bastava dare disposizioni al monsù che sarebbe emerso nelle ore del mattino. Sempre Renata Pucci Zanca scrive: "Così la contessa di xxyy, lasciato il grande Palazzo per un più nuovo appartamento, girando per ispezionare le stanze vuote prima del trasloco: C'è una grande stanza tutta ricoperta di ceramica, molto carina; che cos'è?” chiese incuriosita".
Cosa contenevano dunque le dispense di queste grandi cucine? In occasione dei frequenti ricevimenti in onore di notabili in visita, vi giungevano approvvigionamenti di carni, formaggi, zucchero, ortaggi, agrumi, olio, sale.
E quando questo bendidio approdava in cucina, aveva inizio l'allestimento del convivio, per provvedere al quale non c'era aristocratico con palazzo proprio, che non avesse un cuoco di formazione francese: il monsù, idioma dialettale da monsieur, appellativo che lo distingueva dalla folla analfabeta degli sguatteri che affollavano la "sua" cucina.
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