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La crisi al tempo del Covid19: come siamo cambiati secondo il filosofo Galimberti

Lo studioso ha affidato al magazine GQ una profonda riflessione sullo stato di smarrimento, e le conseguenze, indotto dalle restrizioni sociali a causa della pandemia

Balarm
La redazione
  • 16 novembre 2020

Umberto Galimberti

In un momento in cui l'essere umano - per la seconda volta in pochi mesi - è costretto a "fermare la propria vita", almeno così come normalmente va avanti, è fisiologico che sorgano interrogativi e momenti di crisi esistenziale.

In soccorso giugono le riflessioni e le considerazioni, soprattutto, di pensatori tra i quali, punto di riferimento, vi è Umberto Galimberti, filosofo, sociologo, antropologo culturale, psicanalista e accademico.

Come si può leggere dalla riflessione che lo studioso ha scritto per il magazine GQ il periodo è difficile ma non insuperabile.

«Il cambiamento imposto dal Coronavirus sembra una sofferenza difficile da sopportare, anche se l’umanità ha superato di molto peggio. Succede perché ci troviamo nella condizione in cui tutta la nostra modernità, la tutela tecnologica, la globalizzazione, il mercato, insomma tutto ciò di cui andiamo vantandoci, ciò che in sintesi chiamiamo progresso, si trova improvvisamente a che fare con la semplicità dell’esistenza umana.
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Siamo di fronte all’inaspettato: pensavamo di controllare tutto e invece non controlliamo nulla nell’istante in cui la biologia esprime leggermente la sua rivolta. Dico leggermente, perché questo è solo uno dei primi eventi biologici che denunceranno, da qui in avanti, gli eccessi della nostra globalizzazione. Se questo è il quadro, c’è forse un’incapacità di evolverci, come esseri umani?».

L'interrogativo di Galimberti apre scenari certamente difficili da risolvere o liquidare in una battuta.

«Il futuro non è il tempo della salvezza, non è attesa, non è speranza. Il futuro è un tempo come tutti gli altri. Non ci sarà una provvidenza che ci viene incontro e risolve i problemi nella nostra inerzia. Speriamo, auguriamoci, auspichiamo: sono tutti verbi della passività. Stiamo fermi e il futuro provvederà: non è così» continua il filofoso nella sua riflessione.

E allora cosa ci resta da fare in questo tempo sospeso e imprevedibile?

«Accettiamo che siamo precari (...) Rendiamoci conto che non abbiamo più le parole per nominare la morte perché l’abbiamo dimenticata. Ammettiamo che quando un nostro caro sta male lo affidiamo all’esterno, a una struttura tecnica che si chiama ospedale, e da lì non abbiamo più alcun contatto. Una volta i padri vedevano morire i figli quanto i figli vedevano morire i padri. C’erano le guerre, le carestie, le pestilenze. Esisteva, concreta, una relazione con la fine. Oggi l’abbiamo persa. Quando qualcuno sta male, mancano le parole per confortarlo. Diciamo: vedrai che ce la farai. Che sciocchezza. Che bugia».

La verità è che questa "sospenzione forzata" ci mette tutti di fronte alla precarietà dell'essere umano.

«(...) Non sappiamo più chi siamo. Avevamo affidato la nostra identità al ruolo lavorativo. La sospensione dalla funzionalità ci costringe con noi stessi: degli sconosciuti, se non abbiamo mai fatto una riflessione sulla vita, sul senso di cosa andiamo cercando. Siccome non lo facciamo, poi ci troviamo nel vuoto, nello spaesamento.

Un quarto della popolazione italiana è estremamente fragile: il virus lo ha dimostrato. C’è chi si sorprende del relativismo della società rispetto ai più deboli. Ma è inevitabile. So bene che se mi dovessi ammalare io passerei in secondo piano, perché sono da salvare prima i giovani. Il problema è perché siamo arrivati a dover affrontare questo tipo di scelta, perché non abbiamo provveduto a creare le condizioni, e le strutture, per fronteggiare il dilemma (...)».

Una riflessione doverosa riguarda poi le declinazioni "social" del vivere quotidiano.

«Individualismo, narcisismo, egoismo: sono tutte figure di solitudine. La socializzazione si è ridotta alla propria parvenza digitale. E se anche l’istruzione, superata questa fase sperimentale, costretta dai tempi, dovesse poi venire diffusa via internet? I ragazzi hanno bisogno di imparare ma anche di guardarsi in faccia, di ridere, di capire attraverso lo sguardo se l’altro dice la verità o sta mentendo. Hanno bisogno di esperienze fisiche. Nell’isolamento e nelle avversità, gli esseri umani hanno bisogno di sentire di non essere soli a lottare (...)».

Ma qual è la sorte dell'uomo a fronte di queste considerazioni?

«Siamo il popolo più debole della Terra, il più assistito dalla tecnologia: se manca la luce per dodici ore andiamo nel panico (...) Bios vuole dire vita. Ed è la biologia, accettiamolo, che vincerà».
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