AMARCORD
La "Belva" che uccise una siciliana e i suoi tre bimbi: uno dei delitti più atroci del '900
Una tragedia che si è consumata lontano dalla Sicilia, a Milano. Una storia di tradimenti e gelosie culminata nell'eccidio della "Belva di via San Gregorio"
Franca Pappalardo e i bimbi. A destra Rita Fort
La coppia ha tre bambini piccoli: Giovanni di 7 anni, Giuseppina di 5 e Antonio di appena 10 mesi. A convincerla a lasciare la città e a trasferirsi sono state alcune voci, sempre più insistenti e preoccupanti, di amici di famiglia: il suo Pippo sembra avere infatti da tempo intrecciato una relazione con una commessa trentenne del suo negozio di tessuti in Via Tenca, una tale Caterina Fort detta Rina.
Negli ultimi tempi la storia ha preso una brutta piega, perché Giuseppe ha cominciato a presentare a colleghi e amici la Fort (che indossa la fede nuziale all’anulare sinistro) come legittima moglie.
Quando Franca arriva in città, il destino della Fort, una robusta ragazza friulana di 31 anni, è ormai deciso: viene licenziata in tronco e liquidata con un po’ di denaro. La signora Ricciardi ha affrontato di persona la ragazza, per farle capire apertamente che deve definitivamente rinunciare a Giuseppe.
Nel 1937, a 22 anni Rina ha sposato un compaesano, Giuseppe Benedet, ma ha scoperto di essere sterile e il marito, che già il giorno delle nozze aveva dato segni di squilibrio, è poi impazzito ed è stato ricoverato in manicomio.
Ottenuta la separazione e ripreso il cognome da nubile, Rina Fort si è trasferita a Milano dove in un bar ha incontrato il seduttore Pippo Ricciardi: alto, magro, scuro di pelle, con i baffetti neri, ne è rimasta conquistata, fino a diventarne presto l’amante, senza tuttavia essere a conoscenza del fatto che fosse già sposato, lui si era spacciato per scapolo.
A Franca però tutto questo non interessa, la discussione con la Fort è chiusa: lei deve pensare a salvare il suo matrimonio e la sua famiglia, inoltre è di nuovo incinta, per la quarta volta.
La mattina del 30 novembre 1946. poco dopo le otto, Pina Somaschini, la nuova commessa del negozio dei Ricciardi, si reca in via San Gregorio per farsi dare dalla signora Pappalardo le chiavi del negozio, ma trova la porta di casa socchiusa e questo la insospettisce.
Entra cautamente e le appare una scena raccapricciante! La signora Pappalardo e il figlio maggiore sono per terra nell'ingresso dell'appartamento; a poca distanza, in cucina, vi sono i due bambini più piccoli. Tutti e quattro sono stati ammazzati a sprangate (come l'autopsia macabramente rivelerà) e sono riversi in un lago di sangue. Il più piccolo dei fanciulli, Antoniuccio, di dieci mesi, è ancora sul seggiolone.
L’indagine viene affidata al famoso commissario Mario Nardone (1915- 1986) “il Maigret italiano”, una vera leggenda nella Milano degli anni ’50 e ’60, per il suo acume e il suo intuito.
Nardone ritiene che gli assassini siano dei conoscenti della Pappalardo: la donna li ha accolti in casa e ha offerto loro anche un liquore. I bicchieri sporchi, su uno dei quali vengono rinvenute tracce di rossetto, sono tre.
Sembra manchi una somma imprecisata di denaro e alcuni gioielli di poco valore, ma gli inquirenti scartano l'ipotesi della rapina, perchè la famiglia non naviga certo nell’oro e Ricciardi (soprattutto dopo il licenziamento di Rina Fort, che pare ci sapesse fare negli affari) è sempre pieno di debiti.
Quello di via San Gregorio sembra decisamente un delitto passionale: sul pavimento dell’appartamento viene trovata una fotografia delle nozze dei coniugi Ricciardi fatta a brandelli e la signora Franca ha lottato prima di essere uccisa, sotto le sue unghie vengono ritrovati dei capelli.
Giuseppe non si trovava in casa la notte del delitto, era a Prato, per lavoro; immediatamente rintracciato e informato dell'accaduto. Una volta interrogato fa subito il nome di Rina Fort.
La polizia arresta la donna nella pasticceria dove si era impiegata, mentre serve i clienti scherzando e facendo battute. La gente del quartiere sa della lunga relazione di Rina con il catanese. L'interrogatorio comincia il pomeriggio del 30 novembre 1946. La Fort ammette di aver lavorato per Pippo, ma nega di esserne stata l’amante e nega anche qualsiasi responsabilità del delitto.
Il 2 dicembre, portata a casa dei coniugi Ricciardi in Via San Gregorio, si mostra indifferente, quasi sprezzante. Riaccompagnata in Questura, dopo 17 ore di interrogatorio inizia a cedere, confessando il più tremendo delitto di quel primo dopoguerra.
“Mi ero accorto che il suo cappotto di lana color cammello aveva qualche grumo di sangue all' orlo.” racconterà il commissario Nardone “Ma non fu su quella prova che insistetti. Ogni volta che accennavo ai bambini, l'indiziata aveva un sussulto. Battei e ribattei su quella vulnerabilità. Alla fine, cedette, ma solo per Franca Pappalardo”.
Rina confessa finalmente di essere stata l'amante di Ricciardi, sostiene di aver partecipato all'eccidio, ma afferma di non aver toccato i bambini; accusa Giuseppe di essere il mandante della strage, che lei avrebbe commesso insieme a un certo "Carmelo".
Rina e "Carmelo" avrebbero dovuto inscenare un furto per intimorire Franca Pappalardo, indurla a credere che la vita a Milano fosse troppo pericolosa e spingerla a tornare a Catania; ma, una volta giunti in via San Gregorio, la situazione sarebbe precipitata.
La stessa Rina Fort ricostruisce così la dinamica del delitto nella sua unica dettagliata confessione, resa una settimana dopo l'omicidio: “Quella sera…salii al primo piano e bussai alla porta d'ingresso della famiglia Ricciardi. La signora chiese chi fosse, poi aprì la porta. Entrai porgendole la mano ed ella mi salutò cordialmente. (…)Appena seduta avvertii un lieve malessere, tanto che la signora Pappalardo mi diede un bicchiere con acqua e limone. Quindi ella volle chiarire la stranezza della mia visita: «Cara signora - disse - lei si deve metter l'animo in pace e non portarmi via Pippo, che ha una famiglia con bambini. La cosa deve assolutamente finire, perché sono cara e buona, ma se lei mi fa girare la testa finirò per mandarla al suo paese.
Mi portò dalla cucina una bottiglia di liquore allo 4 scopo di offrirmi da bere. Quindi ritornò nella camera da pranzo per prendere un cavatappi… Accecata dalla gelosia e dalle parole poco prima rivoltemi dalla Pappalardo, oltre che eccitata dal liquore, mi alzai andandole incontro…essa si spaventò, indietreggiando, mi avventai sopra di lei e la colpii ripetutamente alla testa con un ferro che avevo preso in cucina...
La Pappalardo cadde tramortita sul pavimento, io continuai a colpirla. Il piccolo Giovannino, mentre colpivo la madre, si era lanciato in difesa di lei afferrandomi le gambe. Con uno scrollone lo scaraventai nell'angolo destro dell'anticamera e alzai il ferro su di lui…poi entrata in cucina, colpii la Pinuccia; ad Antoniuccio, seduto sul seggiolone, infersi un solo colpo, in testa… Misi a soqquadro la casa intera, non so a quale scopo...
Non era ancora morto nessuno: il piccolo respirava, la signora fissandomi con occhi sbarrati diceva sommessamente: «Disgraziata! Disgraziata! Ti perdono perché Giuseppe ti vuol tanto bene.» Poi soggiunse «Ti raccomando i bambini, i bambini...». Mi chiese aiuto la signora…Singhiozzava, poi si mise bocconi. Mi diressi verso la camera da letto e passai su di lei con tutto il peso del mio corpo. Essa non parlava più…Le vittime agonizzavano ancora quando accostai la porta e discesi le scale. Andai a casa, mangiai due uova fritte con grissini. La notte non potei dormire..».
In totale Rina Fort cambierà sette volte versione. Il Paese è al colmo della rabbia e i giornali vengono tempestati di lettere, soprattutto di mamme, che invocano la pena di morte. Il 10 gennaio 1950 presso la corte d'assise di Milano comincia il processo contro la Fort.
La donna, difesa dall'avvocato Antonio Marsico, viene soprannominata la "Belva di Via San Gregorio”: si presenterà a tutte le udienze in tribunale, con una vistosa sciarpa gialla, che indossa per vergogna o forse per civetteria. Sottoposta a visita psichiatrica dal professor Saporito, criminologo di fama viene dichiarata sana di mente.
Tra i cronisti di nera che seguono tutto il dibattimento in aula c’è lo scrittore Dino Buzzati, che scriverà una serie di articoli per il Nuovo Corriere della Sera, nonostante non se la sentisse più di fare il cronista.
Il Ricciardi negherà durante il processo di aver mai preso parte a qualunque progetto criminale nei confronti della propria famiglia. La sua figura non appare tuttavia così limpida come egli vorrebbe far credere alla Corte. Sulla scena del delitto, per esempio, Pippo sembrava più preoccupato di capire quali e quanti oggetti preziosi fossero spariti che non disperato per la morte dei propri cari.
Una volta portato in Questura, si era gettato tra le braccia dell’amante gridando «Rina mia!», malgrado la polizia l'avesse informato che la donna era la principale indiziata. Il cognato, durante il processo, lo accuserà più volte di essere stato un pessimo marito e padre, e di aver maltrattato la moglie. Il 9 aprile 1952 Rita Fort viene condannata all'ergastolo, mentre Ricciardi è prosciolto da ogni accusa, nonostante permangono molti dubbi sulla sua innocenza.
La Corte di Cassazione, il 25 novembre 1953, confermerà l'ergastolo alla Fort che rifiuterà sempre di considerarsi l'unica colpevole della strage.
“La Belva di via San Gregorio” otterrà nel 1975 il perdono della famiglia Pappalardo e la grazia dal Presidente della Repubblica Giovanni Leone. Quello stesso anno morirà Giuseppe Ricciardi, il suo ex amante, che nel frattempo s'era risposato con un’altra e aveva avuto un figlio. Rina si spegnerà per infarto il 2 marzo 1988, all’età di 73 anni a Firenze. Il Parroco dirà di lei ai funerali: “Era una donna gentile, molto buona. Si era completamente redenta”.
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