STORIA E TRADIZIONI
L’Affaire Aldo Moro: la relazione di Sciascia e quella "incommensurabile perdita di tempo"
È il 9 maggio quando in Via Caetani, un vicolo della Roma storica, in una Reanult viene recuperato il corpo senza vita di Aldo Moro. Ecco cosa scrisse Leonardo Sciascia
Aldo Moro
Nella sua Relazione di Minoranza del 1979 «della Commissione Parlamentare d’Inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia» il Deputato Leonardo Sciascia, ricostruisce i fatti, esprimendo dubbi sui risultati raggiunti dalla Commissione, evidenziando come gli stessi conflitti DC/e PC da un lato e PSI dall’altro, fossero gli stessi di quei dolorosi 55 giorni.
La Commissione d’inchiesta costituita per fare luce sugli avvenimenti, produsse secondo lo scrittore «un'incommensurabile perdita di tempo» spesso con inutili udienze e senza rispondere alla domanda fondamentale.
Poteva essere fatto qualcosa in più per evitare la strage della scorta e la morte del Presidente della Democrazia Cristiana?
Un atto di accusa non per gli uomini della scorta morti nell’agguato, ma per le istituzioni. Che qualcosa non andasse si evince dalle testimonianze della vedova del Maresciallo Leonardi, capo scorta, e di quella dell'autista Ricci. Leonardi era una persona preparata che «riusciva a tenere sotto controllo la situazione», ma la moglie ricorda che negli ultimi periodi era molto preoccupato, pensava di essere seguito e riteneva le dotazioni di uomini e mezzi non adeguati.
La vedova dichiarò in Commissione che il marito ne aveva più volte parlato al Ministero, ma di questi incontri, dice Sciascia stranamente non è rimasta traccia. Stessa preoccupazione l’ebbe l’autista, raccontava in casa di continui problemi meccanici alla macchina, e di come attendesse l’arrivo di un’autovettura blindata, secondo lui più volte richiesta, ma che di fatto non arrivò mai.
La relazione prosegue analizzando "lo sforzo imponente" messo in campo, che sappiamo, non produsse alcun risultato.
Il Procuratore di Roma, dichiarò in Commissione che fu un'operazione di parata per dare un segnale al paese confuso e spaventato. Sciascia si chiede se non fosse stata più utile un'azione investigativa nei riguardi degli esponenti dell'Autonomia che ebbero contatti con i brigatisti, anche durante il rapimento.
Tanto tempo perso, come quando fu attivato il Piano Zero da parte dell’Ucigos, salvo poi scoprire che questo riguardava solo la provincia di Sassari. Così come ebbe poco senso istituire posti di blocco da Trapani ad Aosta mezz’ora dopo l’evento.
Che le BR avessero percepito questa "confusione" e le inefficienze lo dimostra il tranquillo abbandono delle autovetture usate per strage e rapimento, nella zona dell’evento poche ore dopo.
Lo scrittore prosegue con l’incredibile fatto del 18 marzo quando le forze dell’ordine arrivate in via Gradoli, decisero di non sfondare la porta, dando retta ai condomini che affermavano che lì abitava persona seria e tranquilla (Mario Moretti). Bisognerà aspettare una perdita d’acqua e l’arrivo dei vigili del fuoco il 18 aprile per scoprire che era il covo delle BR.
Con amara ironia Sciascia scrive che di solito le organizzazioni segrete evitano di dare nell’occhio. E cosa dire della seduta spiritica nei pressi di Bologna, dove un piattino compose sul tavolino "Gradoli". Indicazione che fu vagliata dagli inquirenti, che pensarono a un paesino del Friuli, e alle sollecitazioni della moglie di Moro che chiedeva di verificare su Roma, le fu risposto che non esisteva sullo stradario.
Sciascia dice che «tutto quello che intercorse tra il 18 marzo e il 18 aprile attinge all’inverosimile» tra spiriti, provvidenziali perdite d’acqua, e inspiegabili errori. Nel leggere la sua Relazione riportata anche nel libro “L’Affaire Moro”, ampio spazio è dato alla mancata decifrazione delle lettere dello statista.
Si chiede come non sia stata considerata «l’attenzione che sapeva dedicare alle parole, il suo uso spesso tortuoso che sapeva farne», preferendo decifrare i comunicati delle BR che con il loro linguaggio «pietrificato, fatto di slogan» non aveva nulla da dire.
All’intelligenza dello statista non fu dato credito, eppure, forse, provò a dare degli indizi. Sciascia ne riporta alcune frasi: «Mi trovo sotto un dominio pieno e incontrollato». Che vuol dire incontrollato?
O quando scrive: «Si dovrebbe essere in condizione di chiamare qui l’ambasciatore Cottafavi» è da leggere che sapeva di essere a Roma? Oppure quando afferma «la mia famiglia versa in stato di grande bisogno», cosa non vera, la famiglia non aveva problemi, a quale "famiglia" si rivolgeva?
Cossiga interrogato, disse che le lettere non furono analizzate perché «si procedeva con metodi artigianali». Sappiamo quale fu la posizione assunta dal governo già dal 16 marzo, Moro fu considerato non affidabile in balia di torture o droghe, e quando questi affermerà con forza di essere lucido, sarà definito un Moro diverso, "non più se stesso".
Nelle sue lettere lo statista chiedeva che fossero messi in atto, quei meccanismi da parte di uno Stato che aveva cancellato la pena di morte, accettando lo scambio. Giocherà a favore del rigore la frase, dove definirà le BR combattenti.
Parole difficili, ma che forse nascondevano la speranza di dividere i suoi carcerieri.
Sciascia in chiusura evidenzia come la volontà di ritrovare Moro, "andava deteriorandosi" sin dalla fine di marzo con la diminuzione delle sedute del Comitato di Interministeriale per la Sicurezza, e del gruppo presieduto dal Ministro degli Interni, di cui non risultano, da aprile verbali o appunti.
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