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In Sicilia non c'era solo la fuitina: zitelle in cerca di marito e strane usanze del passato

All'epoca non c’era il giornalino "Cioè" e nemmeno Paolo Fox, così le fanciulle per scoprire che partener avrebbero trovato, capitava usassero metodi alquanto curiosi

Gianluca Tantillo
Appassionato di etnografia e storia
  • 13 dicembre 2021

Una scena dello spettacolo «Sorelle zitelle»

Sin da bambini noi esemplari maschi siciliani veniamo esortati alla ricerca di due cose che forse non troveremo mai: la saggezza e la felicità, direte voi. Eh no, appena ti scatta il primo pelo della barba ti viene intimato di cercarti il travagghio e la zita, cioè il lavoro e la fidanzata.

La prima è proprio impensabile, tipo cercare il Santo Graal, a meno che non hai qualche templare che ti dà il calcio nel sedere. La seconda ancora ancora ci siamo, anche se venendo meno la prima questa si riduce ad interazione fatta perlopiù di scannate.

Le donne, più romantiche, almeno nella tradizione popolare siciliana, hanno sempre legato la trovotura dello zito a un qualcosa di fatidico non troppo lontano dalla questione principe azzurro.

E se è vero che il detto "auguri e figli maschi" lo si diceva perché a quei tempi un figlio maschio avrebbe significato forza lavoro, è pur vero che dal momento della nascita della figlia a molti padri saliva la febbre a 40 al solo pensiero di doverla condurre ad un buon matrimonio.
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E siccome all’epoca non c’era il giornalino “Cioè”, e nemmeno Paolo Fox, capitava che queste fanciulle, invece che leggere oroscopini e fare test di affinità, per scoprire che partner avrebbero trovato, sciogliessero il piombo dentro una scodella con dell’acqua.

Che erano drogate dirà qualcuno? No, semplicemente dalla forma che andava a comporre con il piombo risolidificato si indovinava il mestiere dell’uomo che si sarebbe sposato: a forma di cazzuola era muratore, se un remo un pescatore e così via.

Ah, se qualcuno volesse approfondire, questo e altro lo riporta Giuseppe Pitrè in “Usi e costumi” Vol.II, da pag.1 in poi (non me le sogno la notte).

E siccome la Sicilia di misticismo ha sempre amato ubriacarsi, pur di trovare una risposta a domande del tipo “a chi cabbaso di mi devo maritare?”, “troverò mai questa cosa che si chiama lavoro?”, siamo arrivati a livelli che mago Merlino sarebbe stato fiero di noi.

Per esempio, la notte di San Giovanni, tra il 23-24 giugno, (questo a Modica) la ragazza in cerca di zito prendeva tre fave: una con tutta la buccia, una con metà buccia e una sbucciata, dopo di che le metteva sotto il cuscino e si andava a coricare. La mattina appresso, quando si svegliava, infilava la manazza sotto il cuscino e afferrava la fava in cerca di responso.

Se afferrava quella con la buccia avrebbe trovato Bill Gates, quella con mezza buccia uno po' così e così, se prendeva quella senza buccia le sarebbe toccato un morto di fame. A Chiaramonte, il giorno dei San Valentino, la ragazza s’affacciava alla finestra mezz’ora prima che spuntasse il sole aspettando che passasse qualcuno.

Se quel qualcuno passava, allora il marito avrebbe avuto molte delle fattezze dell’uomo in questione (e pensate che a quell’orario poteva passare lo zio Sarù che la sera prima era uscito dalla taverna e non aveva trovato la strada di casa o, al massimo, quello che vendeva il latte munto dalla vacca).

Nel caso contrario, cioè che non passava nessuno, cosa non proprio impossibile dato che Chiaramonte è già 700 metri di altezza e il 14 febbraio si attassa dal freddo, si restava zitelle.

A Mazara del Vallo invece era di usanza recarsi verso un pozzo, prendere un secchio d’acqua e buttarselo sulle spalle: anche qui il primo che passava caput. A Noto, come è noto, invece il secchio d’acqua veniva messo dentro una stanza, la ragazza ci saltava dentro e poi correva alla finestra per vedere se passava qualcuno (poi dicono la caccia alle streghe).

Ancora a Mazara, se la ragazza non voleva andare a pozzo, s’affacciava alla finestra con un anello in bocca aspettando che passasse il suo principe azzurro… se non s’affogava magari lo trovava qualcuno.

Sempre nella zona del trapanese era usanza seppellire nelle strade di fronte casa (erano sterrate) i legaccioli delle calze della picciotta in cerca di marito; dipende chi ci passava per primo avrebbe rivelato la condizione del pollo da spennare: pure là Bill Gates, così così, morto di fame.

Insomma, questa cosa del fato che interviene per decidere le nostre sorti fa troppo parte di noi per liberarcene, come anche i dissapori tra città. Fino a qualche tempo fa c’era così rivalità tra alcune paesi che era vietato prendere sposo di quel posto o di quell’altro. Esagerati, manco fossimo Montecchi e Capuleti! Per non parlare poi del legame, più pagano che religioso, con i Santi d’appartenenza o di famiglia (tipo squadre di calcio).

Proprio Pitrè ci racconta, assicurandoci che la fonte è persona affidabilissima di nome Guastella, che una ragazza siracusana un giorno andò a trovare il promesso sposo a casa perché si era preso un raffreddore: per poco non saltava il matrimonio. La famiglia della ragazza, infatti, era devota a San Filippo, quella del ragazzo invece era devota allo Spirito Santo perché erano della contea di Santo Spirito.

Ebbene, appena la ragazza vide quel quadro al capezzale del letto dell’ammalato andò su tutte le furie, acchiappò il detto quadro e se lo pestò letteralmente sotto i piedi, obbligando il fidanzato ad appendere un quadro di San Filippo.

Come vedete questo legame destino/religione è sempre presente, non per nulla si diceva: “Matrimoni e Viscuvati, di lu cielu su destinati”.

Tirando le somme, io non lo so se era meglio prima o se meglio oggi che invece del salto dentro la bacinella ti mandano i selfie con le labbra a cuoricino e minchiate del tipo “mi hanno gettato in mezzo ai lupi e ne sono uscito capobranco” (prenda le sue medicine, ci sarebbe da dire).

Io mi affido ai proverbi che sono aggratis e raramente sbagliano; e, per non sapere né leggere né scrivere, certe volte “megghiu suli ca mali accumpagnati”.
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