STORIE
Il padre lavorava all'ospedale psichiatrico: com'era la vita nell'ex manicomio di Trapani
Comincia così l’avventura letteraria di Giacomo Loria, ristoratore che, per rendere omaggio alla memoria del padre ha scritto com'era la degenza nella struttura
L'ex manicomio provinciale di Trapani
Il romanzo è stato intitolato “Si chiamava Eliot Mann”, e rappresenta un appassionato, e commosso, lavoro d’esordio che ha esaudito un’esigenza irrinunciabile e interiore legata alla propria esperienza familiare.
Una narrazione intima della quotidianità vissuta all’interno della struttura riservata e, forse solo apparentemente, specializzata nella cura dei disturbi mentali, destinata in realtà al ricovero e alla "segregazione" dei malati, come contenitore sociale di una serie di problemi diversificati, che a quel tempo non hanno goduto del giusto ascolto, e del giusto sostegno.
Il libro nasce dal bisogno di trattare una tematica delicata e importante come quella della malattia mentale, spesso "invisibile" per la società civile, che non sempre è propensa a comprenderne disagi e urgenze, e necessita, secondo l’autore, di maggiore sensibilizzazione.
Giacomo Loria ha voluto accanto a sé, per permettere al suo libro di farsi strada, tra la gente, e rinverdire un tempo oscuro che reclama un’analisi approfondita, per rinnegarne gli errori, Giuseppe Vultaggio, presidente dell’associazione culturale “L’Anfora di Calliope”, Monsignor Gaspare Gruppuso, vicario foraneo per la zona pastorale di Trapani, già presente con un servizio di volontariato all’interno di quell’ospedale psichiatrico, e il dottor Giovanni Vassallo, già dirigente medico all’Asp di Trapani e medico di medicina generale.
Proprio Monsignor Gruppuso ha profuso il suo impegno umano e morale negli anni passati, dopo la chiusura della struttura, riuscendo a mettere a disposizione della collettività un servizio concreto di accoglienza e ospitalità realizzato con una casa-famiglia per malati psichici, dedicata alla memoria di mons. Domenico Amoroso, il vescovo che ha voluto tale realtà come segno della carità della Diocesi.
Una struttura importante con personale dedicato, composto da uno psicologo, due assistenti sociali e da volontari. L’idea è stata quella di permettere agli ammalati di svolgere lavori manuali, fare la spesa, uscire e iniziare quel reinserimento che per molti di loro è auspicabile e necessario.
Un aiuto rivolto anche alle loro famiglie, perché non debbano portare da sole il peso dell’accoglienza, a volte difficile, se non impossibile.
Il libro di Loria affronta, così, una tematica estremamente delicata mirata a restituire dignità a quei pazienti che vi erano ricoverati, molti dei quali, in clima di emarginazione, pur senza reali problemi psichiatrici; persone che non hanno avuto l’opportunità di vivere una vita libera e di curarsi in modo appropriato, subendo lo stigma della malattia mentale.
«Ho vissuto da bambino quegli anni duri da spettatore involontario, perché andavo a trovare mio padre al lavoro – dice Giacomo Loria – e non ho mai dimenticato quel posto, né le persone che vi trascorrevano le giornate, e la vita intera.
Un sogno mi ha permesso di scrivere questo libro, perché ho sentito dentro me, una mattina al risveglio, che questa storia chiedeva di essere raccontata, che qualcuno desiderava avere voce, e raccontare a chi non sa, o non ricorda, l’esistenza dentro quella realtà lontana dalla società civile.
Non so se è stata la volontà di mio padre, se la mia coscienza, forse a lungo repressa, o l’elaborazione di quanto negli anni ho conservato tra i miei pensieri, ma di certo questo libro è un omaggio alla figura di mio padre, che non ha mai definito quelle persone ‘malati’ o, peggio, ‘pazzi’, ma li ha sempre citati come "i ricoverati".
C’è una cosa che non dobbiamo mai dimenticare o sminuire, ed è la dignità dell’uomo, di ciascuno. Forse in passato sono stati commessi tanti errori e questa è stata calpestata.
Forse il protagonista del racconto sono io da bambino. Di certo mi premeva portare alla luce quello che in tanti anni ho vissuto per esperienza diretta e ringraziare mio padre, a distanza di anni dalla sua morte, per la capacità che ha avuto di svolgere un ruolo tanto difficile come il suo, da infermiere, all’interno di quell’ospedale, non tradendo mai in noi familiari, anche di fronte alla stanchezza o alla demoralizzazione al cospetto del dolore, i valori più nobili cui ogni essere umano deve fare riferimento.Per me è stato un esempio, e così ho voluto rendergli onore».
L’auspicio dell’autore è che adesso il suo libro possa risvegliare una coscienza collettiva su quella triste realtà di isolamento e ghettizzazione che rischia di ripetersi ogni qualvolta si tende ad "allontanare" una malattia – fosse anche quella scaturita da solitudine profonda – considerata quasi causa di impurità, che certamente coinvolge tutta la persona, ma in nessun modo impedisce il suo rapporto con Dio.
«La compassione è il sentimento che dobbiamo contrapporre all’emarginazione – dice Loria – ricordandoci che il vero peccato che spesso non si riesce a superare è l’egoismo».
Se ti è piaciuto questo articolo, continua a seguirci...
Iscriviti alla newsletter
|
GLI ARTICOLI PIÙ LETTI
-
ITINERARI E LUOGHI
È un sogno per i turisti (di mezzo mondo): in Sicilia c'è uno dei borghi più belli d'Europa