ITINERARI E LUOGHI
Il (magico) borgo in Sicilia tra le montagne e il castello: a due passi dall'antica Abakainon
Una giornata segnata dallo stupore, che accompagna la vista già dalla frazione di Campogrande, una terrazza con vista sul mare l’azzurra distesa del golfo di Tindari
Lo stupore accompagna la vista già dalla frazione di Campogrande, una terrazza con vista sul mare l’azzurra distesa del golfo di Tindari, un tocco di colore per incominciare bene la giornata.
Presentazione con i componenti del gruppo, breve spostamento in automobile e siamo giunti ai piedi di una scalinata da dove abbiamo iniziato il nostro cammino.
Dopo un paio di chilometri su un tracciato ormai invaso dal terriccio e dalla vegetazione anzi ricco di tanta minestra selvatica che qualcuna ha pure raccolto, siamo arrivati al borgo di Casale il più antico insediamento del Comune, dove ci siamo imbattuti in una chiesetta in stile romanico edificata su un precedente tempio pagano.
Con noi c’era Giuseppe Abramo cultore della storia locale e profondo conoscitore del territorio che ci ha fatto notare in una collina prospiciente alcune rocce scavate come delle finestre che erano invece dei loculi funerari risalenti al 1.200 A.C. e che erano dovuti all’antico popolo dei Sicani.
Da qui abbiamo goduto di un’ampia visuale comprendente l’abitato di Novara e le sue rocche, la rocca dell’Aquila dell’Argimusco e più dietro fare capolino L’Etna innevata. Un’interessante veduta era pure costituita da un costone scosceso di nuda pietra della stessa collina con vari riverberi di colorazioni rossicce.
Ma la nostra attenzione è stata soprattutto catturata dal paesaggio circostante con caratteristiche davvero uniche per l’asprezza del rilievo. Infatti dall’alveo dei due torrenti Tallarita e Mazzarrà si elevano subito in verticale delle colline che pur attestandosi attorno ai 400 m,s,l, sono coì ripide da sembrare quasi delle montagne himalaiane.
Esse pur avendo una notevolissima pendenza non sono degli sterili calanchi ma al contrario sono ammantati di una fitta e scura copertura boschiva costituita da robuste querce. Ritornati in paese abbiamo visitato il museo “Santi Furnari” ubicato in un palazzotto nobiliare con i soffitti riccamente istoriati.
Ospita i reperti dell’antica città di Abacena che sorgeva più a sud dell’odierna Tripi in contrada Piano. Abbiamo visto vasi e anfore di artigiani locali ma di imitazione greca e monili e rosoni in oro di pregevole fattura.
Abbiamo appreso la storia di questa antica città sorta intorno al 1.200 A.C. come polis greca col nome di Abaikanon che in alcuni periodi ha avuto pure il raro privilegio di coniare monete che effettivamente sono state rinvenute i cospicuo numero e sono conservate nel museo di Siracusa.
Essa è arrivata a raggiungere i trentamila abitanti. Quando era polis greca ha dovuto lottare a lungo per non farsi sottomettere da Siracusa e si è alleata con i cartaginesi che sono però stati sconfitti ben due volte dal tiranno siracusano Dionisio I che non ha attaccato Abakainon difesa dalle sue impervie montagne me le ha sottratto Tindari con tutto il suo territorio impoverendola.
A seguito della prima guerra punica la città si è consegnata spontaneamente ai romani e raggiunse un notevole splendore, elevata al rango di municipium. Ma nel 36 D.C. fu distrutta per ordine dell’imperatore Augusto che volle punirla per non avergli precedentemente alla sua ascesa al potere imperiale versato i tributi richiesti. In epoca successiva un cataclisma naturale l’ha definitivamente cancellata dalla storia.
Dopo questo excursus storico siamo stati accompagnati agli scavi di questa antica città che comprendono solo una minima parte di quella che doveva essere l’area urbana e che riguardano la necropoli.
Così abbiamo appreso che i defunti venivano inumati . alcuni scavando direttamente una fossa nel terreno, altri collocati in rupe scavata ed altri ancora racchiusi in lastroni di pietra sul cui frontale venivano scolpite delle iscrizioni recanti non solo l’identità del morto ma anche le qualità possedute in vita.
Fra queste tante recano la dicitura bello e bravo. Pertanto ne ho ricavato un’idea per ciò che dovrà essere inciso sulla mia tomba.
Tripi è un territorio ricco di reperti archeologici, ci sono pure i palmenti rupestri che ho visto con Giuseppe Abramo che ci ha guidato alla loro scoperta e che è colui che li ha portato alla luce con un appassionato ed instancabile lavoro di ricerca. Ciò è avvenuto in un’escursione precedente in cui abbiamo visitato i 54 palmenti rupestri della frazione S. Cono portandoci dal ponte sul torrente Tallarita da cui fra l’altro si gode una vista spettacolare sul canyon formato dal corso d’acqua che si fa strada fra degli enormi megaliti di cui uno perfettamente tondeggiante.
Attraversato il ponte ci siamo inerpicati per dei luoghi che nonostante siano molto acclivi sono stati coltivati fin dall’antichità mediante numerosi muretti a secco. Da allora nei tre anni successivi Giuseppe Abramo ha scoperto nel territorio di Tripi altri palmenti rupestri arrivando a comprenderne 99.
Alcuni dove non c’erano rupi sono stati ricavati trasportando lastroni di pietra con delle slitte. (Strauli in dialetto) I palmenti sono costituiti da due vasche comunicanti.
Nella più grande, posta ad una quota più elevata, chiamata “pista” veniva pigiata l’uva, mentre nella vasca inferiore per la fermentazione di solito più piccola ma più profonda ,veniva raccolto il mosto. Il liquido defluiva dalla vasca principale alla secondaria attraverso un foro nel tramezzo.
In alcuni casi nelle pareti della vasca principale si trovano degli incavi quadrangolari che suggeriscono l’utilizzo di una trave per la torchiatura. Recentemente ne sono stati rinvenuti altri anche di notevoli dimensioni nel territorio di Francavilla e di Roccella Valdemone.
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