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Ha tanti significati ma tutti negativi: se in Sicilia dicono "pari na caiorda" preoccupati

La frase tipica della zona del messinese e catanese, assume significati diversi se la si attribuisce a uomo o donna, ma l'essenza è simile: la sua storia e quando si usa

Alessandro Panno
Appassionato di sicilianità
  • 7 aprile 2025

Che significa quando ti dicono: "Pari na caiorda" in Sicilia

Uno dei ricordi più vividi della mia infanzia di gioco risale ai tempi della "villeggiatura" nella casa di mio nonno a Orto Liuzzo: ri nicareddu, la prassi era andare a fare i tre mesi estivi in questo ameno paesino in quel di Messina composto, ai tempi, da un’unica via, un bar, un emporio, una chiesa e spiaggia isolata a perdifiato.

Ci si imbarcava nella Simca 1000 arancione e dopo aver fatto tutto il tratto Cefalù-Messina percorrendo la statale (e vomitando anche tutto l’apparato digerente) si giungeva finalmente a destinazione.

A me piaceva un sacco, perché era tutto un po’ alla buona in quella casetta in riva al mare, ma soprattutto avevo la licenza di darmi alla pazza gioia, tornando spesso a casa che ero una fitinzia.

Da bravo militare che aveva conosciuto la guerra e le sue privazioni, mio nonno era molto pratico e non aveva mezze misure nel risolvere un problema.

Per cui era quasi scontato, nonostante mi volesse un bene dell’anima, che mi accogliesse con il cannolo dell’acqua bella agghiacciata per togliere il grosso della fitinzia, prima di farmi entrare in casa.

Altri tempi e altri metodi, che se baccamora l’avvissiro a fari na sti tempi partirebbero i servizi sociali, ma allora buona parte delle cose che oggi farebbero gridare allo scandalo erano consentite, e nonostante l’assenza di metodi montessoriani alla fine siamo venuti su abbastanza bene.

Un giorno, in una una scorribanda con gli amici a Gesso, equivalente di Orto Liuzzo ma arroccato sui Peloritani e e dove andavamo sempre in bici per vedere l’Etna, trovammo una specie di grotta che immediatamente divenne teatro di epiche lotte alla Orlando e Rinaldo con canne vecchie al posto delle spade, con tanto di rotolamenti a terra e sbucciature di ginocchia.

Insomma tornai a casa che facevo schifiare puru i cani, sporco come un minatore appena uscito da una miniera di carbone e con il 70% del corpo ricoperto di croste.

Ebbi appena il tempo di posare la BMX che mio nonno mi ordinò di mettermi nell’angolo tra u peri di fico e i pomodori e, preso il tubo dell’acqua, indirizzò verso di me la bella acqua di pozzo dicendomi «fermo là che pari una caiorda!».

In effetti questo termine credo sia più tipico della zona del messinese e catanese, perché tornado alla triste vita di tutti i giorni a Palermo, io che avevo un siciliano dato dalla fusione del palermitano e del messinese (con qualche perla genovese) utilizzando caiorda o meglio caiordu con miei amici non venivo capito, tranne che dalle persone un po' più avanti con l’età.

A caiorda era intisa come una malafimmina, luorda, fitusa, non solo di aspetto, ma anche di animo. Termine che poi venne applicato anche alla controparte maschile.

A caiorda/u era, o meglio è, un marchio infame, un bullu che viene appizzatu in capo e che difficilmente andrà via. Una persona, poco importa se fimmina o masculu, è trascurata, incunnata e con un animo sordido.

Un caiordu è un uomo che venderebbe la madre per i suoi interessi, senza alcuna moralità, u rituffo ru rituffo, un cato i lippu.

Mentre la controparte femminile, a caiorda, è una donna sporca, brutta, malaminnitta, una fimmina i malo affare, capace anche di vendere il proprio corpo non per necessità, ma solo per diletto e per il gusto di consumare i famigghie.

Purtroppo, e ribadisco purtroppo, il sostantivo al femminile è quello più diffuso e usato nell’immaginario siciliano.

Forse perché da sempre la donna, per noi siculi, è stata la quinta essenza della purezza, della gentilezza, l’angelo del focolare, e forse per questo faceva più scanto rispetto ad un uomo.

Sia bene inteso che le donne sono tutto questo, ma anche molto di più. Non siamo più nella Sicilia rurale dei tempi e le donne hanno dimostrato e dimostrano di essere capaci di molto di più che i ruoli a loro storicamente relegati, superando, spesso, gli uomini in abilità.

Tuttavia nei proverbi popolari si dice che “si comu Betta a cajorda, cu l’occhi mucciusi e a facciazza luorda” oppure che “fimmina che s’ impupa e fa tuletta" o è "nammurata o cajorda netta!".

È plausibile il termine derivi dall’ebraico "hajordah" che significa puzzola, ma esprime anche il concetto di colei che “si abbassa e si umilia”, una sorta di caduta morale e sociale, spesso dovuta a volontà propria e non dettata dagli eventi.

Ma non sia mai che in Sicilia ci limitiamo a poche e semplici spiegazioni, qui da noi l’ufficio complicazioni affari semplici è sempre aperto.

Pare che caiorda fosse usato per identificare le donne provenienti dalla riviera di Chiaiorda, strada di Napoli anticamente sporca ed abitata da gente malfamata e che spesso si spostavano proprio nel messinese.

Senonché, in antico portoghese la caiada indicava, oltre che qualcosa di bianco o sbiancato, anche il rivestimento in travi di legno bianco che sulle navi lusitane lastricavano il ponte, scelta incomprensibile per noi siculi, ca ci camini una volta e s’allordano subito.

Quindi nel tempo caiada divenne sinonimo di qualcosa che dovrebbe essere candido ma in realtà si presenta come sporco, lercio e, di conseguenza, di qualcuno che non riesce a mantenere il proprio candore d’animo.

E siccome il lieto fine ha sempre il suo fascino, esiste anche la leggenda di Caiorda, la quale ha pure una morale finale!

Nell’entroterra siculo c’era, e forse c’è ancora, una paesino tutto ammugghiato e impiccicato ad una montagna con case stritti stritti ca ci capievano pochi cristiani tutti assieme.

Nella casa più piccola di quel piccolo paese viveva una ragazza, conosciuta da tutti, ma a cui nessuno dava confidenza: la ragazza si chiamava Caiorda.

Era poverissima, sempre tutta ingrasciata, fitusa, con i vestiti strappati e sporchi, i capelli ‘ncasciati, trattata malissimo da tutti e quindi, per reazione pure malocarattere. Unni vulia chiù!

Gli anziani si facevano il segno della croce quando passava e le mamme dicevano ai picciriddi che non si volavano lavare “viri che poi addivinti comu a Caiorda che ti porta cu idda!”.

Un giorno nel paesino venne a piovere, all’inizio una pioggerellina leggera leggera, ad assuppaviddani, ma poi cominciò ad infurzare, e venne giù un diluvio.

Non era pioggia normale, era acqua ca scinniva come cati, capace di entrarti dentro le ossa, di arrivare fino all’animo e togliere ogni sudiciume.

Mentre tutti cercavano riparo, Caiorda rimase imbabolata in mezzo la strada, a braccia aperte, ad accogliere su di sé quella pioggia, aggritta come una statua, gli occhi chiusi e la faccia verso il cielo.

Ed allora la pioggia lavò via ogni cosa, i vestiti, seppur strappati rivelarono i loro sgargianti colori, la pelle diventò di perla e i capelli seta, e quando tornò di nuovo il sole Caiorda fici strizzare l’occhi a tutti gli abitanti del paese con la sua bellezza e il suo animo gentile lavato da ogni bruttura.

«Mizzica ma Caiorda è troppu sapurita…. Era solo allurdata!».

I cristianeddi del paese si pentirono per come l’avevano trattata fino a ora e se ne presero cura, le prepararono una dote e in breve tempo ci fu la fila di picciotti, anche da paesi lontanissimi venuti fin lì per conquistarne il cuore.

Caiorda quindi si sposò con il giovane rampollo di un regno lì vicino, visse felice, appagata, ma per tutta la sua vita, non appena accennava a piovere non perdeva l’occasione di uscire fuori e farsi arruciare tutta dalla pioggia, iicchi…

«Nuddu nasci comu pari, è a vita ca nni porta a issiri chiddu ca siemu, ma tiempo o malatiempu c’è sempre tiempu pi turnare n’arrieri!».
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