CURIOSITÀ
"È intelligente ma non si applica": un detto universale, anche se ti chiami Pirandello
Non fu uno studente modello e a scuola amava disegnare piuttosto che scrivere temi. Conosciamo un altro lato del premio Nobel per la Letteratura, Luigi Pirandello
Luigi Pirandello
C’è un 5 in italiano nella sua pagella dell’anno scolastico 1878-79, quando frequentava la seconda classe della Regia scuola tecnica di Agrigento. Pirandello, in italiano, era proprio in difficoltà soprattutto negli scritti.
Quel "cinque" la dice lunga sui suoi temi: erano evidentemente “compitini sciatti”, privi di osservazioni e di fantasia, zoppicanti in ortografia e non sempre a posto con la sintassi.
«Agli orali, invece, se la cavava: aveva memoria di ferro per immagazzinare date e versi come piaceva al suo insegnante e riusciva così a compensare, nel giudizio complessivo di fine d’anno, l’insufficienza nello scritto», sostiene un suo biografo.
Pirandello amava piuttosto disegnare e ci ha lasciato persino delle opere pittoriche giovanili. E amava anche scrivere testi teatrali. A 15 anni scrisse, per una recita scolastica, il suo primo copione, Barbaro (di cui, purtroppo, non è rimasto nulla).
Il padre Stefano, commerciante di zolfo a Porto Empedocle, visto che a scuola il figlio combinava poco, in estate lo faceva lavorare nella sua azienda con i lavoranti che al porto caricavano lo zolfo.
Con la complicità di un suo zio materno, Innocenzo Ricci- Gramitto, che insegnava al Ginnasio di Agrigento, senza far sapere nulla al padre, il giovane studente agrigentino Luigi Pirandello lasciò la regia Scuola Tecnica e divenne ginnasiale.
E al Liceo-Ginnasio “Empedocle”, lo studente Pirandello trovò il suo ambiente ideale, migliorando in tutte le discipline. Il suo compagno di scuola in quel Liceo ed amico, il bibliotecario e letterato agrigentino, Antonio De Gubernatis, in una intervista rilasciata al giornale “L’Ora” pochi giorni dopo la morte di Pirandello, ha detto: “Siamo stati compagni al ginnasio.
Luigi Pirandello non diede mai prova di possedere una intelligenza superiore. Era un ragazzo che studiava pochissimo. Assiduo alle lezioni; ma annoiato. Del suo ingegno, che dopo una cinquant’anni doveva rivelarsi formidabile, non se ne accorse mai nessuno. Insomma, non brillava.
Una volta egli lesse in classe un componimento. Dopo averlo ascoltato, l'insegnante gli domandò se lo avesse fatto lui e Pirandello, quasi sorpreso, rispose affermativamente. Fu quella l'unica volta in cui egli, che era considerato poco me no di un mediocre, si fece notare”.
Poiché il padre aveva bisogno di lui per i suoi affari a Palermo, Luigi, allora diciassettenne, lasciò Girgenti e frequentò a Palermo l’ultimo anno del Liceo, ma distrattamente per via di una passioncella adolescenziale per una sua cugina. Poi partì, nel 1888, per frequentare l’università a Roma, ma nella Capitale non andò sempre d’accordo con i suoi insegnanti. Disgrazia volle che l’inquieto agrigentino abbia avuto qualche dissenso col titolare della cattedra di letteratura latina, Onorato Orcioni.
Pare che l’illustre professor Orcioni, non sapesse perdonare all’allievo Pirandello di essersi accorto di uno strafalcione sfuggitogli nel leggere una commedia di Plauto e di averglielo fatto notare. In seguito a quell’episodio, l’ambiente dell’Università La Sapienza di Roma gli si fece ostile al punto da decidere di compiere gli studi fuori, non solo di Roma, ma l’Italia.
Così nel settembre del 1889, Pirandello lascia Roma per Bonn dove finalmente scopre l’amore per la ricerca e si laurea con una tesi in fonetica e morfologia sulla parlata di Girgenti, la città dove era nato e dove aveva cominciato la sua avventura di studente e che non ha mai dimenticato.
Nel 1897 assunse, come incaricato, l'insegnamento di Letteratura italiana (stilistica) presso l'Istituto superiore femminile di Magistero a Roma; nel 1908 ne diventa professore ordinario insegnandovi sino al 1922.
Ma anche l’ambiente universitario si rivelò piuttosto insidioso per il professore Pirandello: non era raro il caso che qualcuna delle sue allieve si accendesse per lui di improvvisa passione.
Una di loro ha pubblicato questo ricordo: «Una mattina Pirandello entrò in classe, andò difilato alla cattedra con la stessa fretta di una persona che vuole liberarsi al più presto di qualche cosa che le dà fastidio.
E appena seduto, senza neppure fare l’appello, trasse dalla tasca una lettera e con volto serio, quasi corrucciato disse: «Signorine, ogni bel gioco dura poco. Ora basta» e zac-zac fece quei foglietti in mille pezzi, che buttò nel cestino delle carte.
Noi ci guardammo allibite. Ricordo ancora lo sguardo stupito di alcune che, volgendosi indietro l’una verso l’altra, sembravano dire: « Che cosa ci sarà stato scritto?».
La lezione terminò nel profondo silenzio di noi tutte. Ma appella essa ebbe termine ci precipitammo verso il cestino, raccattammo quei pezzi di carta e incollandoli al punto giusto ricomponemmo il testo della lettera.
La scrivente si firmava Fior d’Alpe perchè era una settentrionale e si rivolgeva a Fuoco, sotto il qual nome era adombrato Pirandello, che natio della Sicilia era per essa, il simbolo della lava infuocata del vulcano Etna.
Forse quella doveva essere l’ultima e certamente la più manifesta e ardita di altre sue dichiarazioni, se il professore aveva detto con voce vibrata: "Ora basta". La vicenda finì lì, nè poteva avere un seguito».
La moglie di Pirandello, Antonietta Portulano, era a conoscenza delle tentazioni in cui poteva cadere il marito e andava di nascosto a controllarlo all’uscita dell’Università. Era però piuttosto assenteista, avvalendosi di quella speciale immunità di cui godevano gli scrittori in cattedra così nel 1908 il Direttore dell’Istituto di Magistero (Giuseppe Aurelio Costanzo) si lamentò col Ministro perché Pirandello «sconvolgeva regole e canoni».
Più tardi, il suo collega Manfredi Porena, in un articolo commemorativo, scritto pochi giorni dopo la morte del drammaturgo siciliano, sosteneva che Pirandello «non poteva dare alla scuola tutto se stesso», poiché «la scuola non poteva dargli, economicamente, tutto quello di cui egli, non per lautezza di vita (ché era estremamente sobrio e parco in tutti i suoi gusti) ma per condizioni di famiglia, aveva bisogno».
Pur tuttavia, rilanciava nello stesso articolo il filologo romano, «in quel che dava, era tutto quello che si poteva desiderare».
Mentre l’agrigentina Maria Alaimo, prediletta ex allieva pirandelliana, ricorda: «Quando in certi giorni ci faceva fare delle esercitazioni libere era qui che tutta la sua genialità si manifestava… Gli piacevano quelle pagine in cui l’alunna si abbandonasse o ai ricordi o alle espressioni di un suo mondo. Odiava tutto quello che era meccanico, tutto quello che era di maniera, tutto quel che alle volte arieggiava il moraleggiante, senza avere realmente risonanza nella vita.
Qualche volta, però, era rigido, chiuso, magari a quella comprensione umana, che era così viva nelle sue novelle, talvolta pareva proprio che gli facesse difetto, come uomo, come professore, come esaminatore, da uomo a uomo, da persona a persona.
Era come se su quella cattedra ci stesse più per una necessità di vita che non per trasporto suo proprio. Anche con gli altri professori suoi colleghi non pareva che dimostrasse molte vive manifestazioni di amicizia. Se ne stava sempre un po’ appartato».
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