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Curavano l'anima, la febbre e cacciavano gli spiriti: le storie dei "guaritori" in Sicilia

Ciccina, donna Maria, don Salvatore. Custodi di antichi saperi svolgevano un ruolo essenziale in un'epoca in cui l'accesso alla medicina ufficiale era limitato

Marco Giammona
Docente, ricercatore e saggista
  • 25 novembre 2024

"Il medico selvaggio: custodi di antiche saggezze tra spirito e natura nella Sicilia di un tempo". La medicina popolare siciliana incarna un intreccio suggestivo e complesso di saperi empirici e credenze arcane, un retaggio culturale che affonda le sue radici nelle tradizioni locali, riflettendo l'influenza stratificata delle molte civiltà che hanno attraversato l'isola nel corso dei secoli.

Greci, Romani, Arabi, Normanni e altre dominazioni hanno lasciato un'impronta indelebile, contribuendo alla formazione di un patrimonio che unisce conoscenza pratica e dimensione spirituale.

Tra le figure più emblematiche di questa tradizione si erge quella del medico selvaggio, un guaritore, uomo o donna, popolare la cui autorità, pur priva di fondamenti accademici, godeva di un rispetto e di una fiducia profondi all'interno delle comunità rurali.

Questo custode di antichi saperi, trasmessi oralmente di generazione in generazione, svolgeva un ruolo essenziale in un'epoca in cui l'accesso alla medicina ufficiale era limitato, soprattutto nelle aree più remote dell'isola.
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Giuseppe Pitrè, celebre etnologo siciliano, ha dedicato ampio spazio a queste figure nei suoi studi, evidenziando la loro centralità nella vita quotidiana delle comunità locali.

I guaritori popolari operavano in un contesto culturale in cui la malattia non era percepita esclusivamente come un affanno corporeo, ma piuttosto come un disordine che coinvolgeva l'intero equilibrio esistenziale dell'individuo, abbracciando sia il corpo che l'anima.

Questo approccio olistico era evidente nelle loro pratiche, che combinavano l'uso di erbe medicinali con rituali magico-religiosi volti a ristabilire un'armonia profonda tra i diversi piani dell'essere.

A Misilmeri, vicino Palermo, alcuni di questi "medici guaritori" erano ben noti. Si racconta, ad esempio, di Donna Maria, un'anziana guaritrice che utilizzava erbe raccolte nelle colline circostanti per preparare infusi di malva o salvia, ideali per curare febbri persistenti.

La raccolta delle erbe avveniva al mattino presto, momento in cui si credeva fossero al massimo della loro potenza terapeutica. Per lenire i dolori articolari, preparava impacchi di rosmarino e alloro, accompagnati da massaggi rituali che dovevano “sciogliere” le tensioni corporee e spirituali.

Nella cura delle ferite e delle infezioni, un altro guaritore misilmerese, Don Salvatore, era noto per i suoi unguenti a base di olio d'oliva, cera d'api e calendula, applicati con cura sulle ferite e accompagnati da formule magiche che, secondo la credenza, acceleravano il processo di guarigione.

Anche l'aceto, diluito e usato come disinfettante, rappresentava un rimedio comune, il cui uso era spesso ritualizzato per accrescerne l'efficacia. Quando si trattava di disturbi nervosi o di sintomi che oggi definiremmo psicosomatici, come ansia o insonnia, i guaritori utilizzavano infusi di melissa o lavanda, erbe ritenute capaci di "calmare l'anima" e ripristinare la serenità interiore del malato.

Questi rimedi venivano spesso integrati con tecniche di rilassamento e riti di purificazione, che conferivano un senso di sollievo tanto fisico quanto spirituale.

Un ruolo particolarmente significativo era riservato all'assistenza durante il parto. Le donne guaritrici, come Donna Ciccina, offrivano supporto pratico e spirituale alla madre e al neonato, utilizzando talismani e recitando preghiere per allontanare gli spiriti maligni. Per alleviare i dolori del travaglio, era comune somministrare un infuso di semi di finocchio e camomilla, riconosciuto per le sue proprietà rilassanti e facilitanti.

Questo rituale di cura incarnava un delicato equilibrio tra il sapere empirico e la fede nelle forze invisibili che governavano la vita e la morte. I guaritori erano anche esperti nel trattare disturbi che la comunità attribuiva a cause soprannaturali, come il malocchio e le fatture. Per combattere il malocchio, si eseguiva un rituale in cui si versava olio in un piatto d'acqua; se l'olio si divideva in gocce, si confermava la presenza di energie negative.

La cura consisteva in preghiere specifiche e rituali di purificazione, come il passaggio di un ramo di ulivo benedetto sulla testa del malato, accompagnato dalla recitazione di formule segrete. Spesso venivano utilizzati amuleti, come coralli o aglio, per proteggere la persona dagli influssi negativi.

Le fatture, o maledizioni intenzionali, venivano affrontate con una combinazione di rituali, bagni purificatori a base di erbe aromatiche come basilico e timo, e la preparazione di talismani protettivi realizzati con oggetti simbolici, come fili di lana intrecciati o piccoli sacchetti contenenti erbe e sale.

La capacità di questi guaritori di coniugare empirismo e spiritualità li rendeva figure di grande rispetto, spesso consultate non solo per problemi di salute, ma anche per questioni familiari o comunitarie.

In un’epoca in cui la medicina ufficiale era spesso inaccessibile, il medico selvaggio incarnava la speranza e la saggezza popolare, offrendo un approccio olistico alla salute che considerava il corpo e l’anima come un tutt’uno.

Oggi, questo retaggio, pur essendo in gran parte soppiantato dalla medicina moderna, rimane vivo nella memoria collettiva come emblema di una saggezza ancestrale che continua a suscitare fascino e rispetto.
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