CULTURA
Carnevale in Sicilia è la "festa del maiale": che cosa si mangia di Martedì Grasso
Si mangiavano piatti abbondanti e ci si riempiva la pancia soprattutto negli ultimi due giorni , in linea con l'abbondanza e l'eccesso che questa richiede

Sugo di maiale (foto da "Cuoche ma buone")
Scriveva Goethe “Il Carnevale di Roma non è precisamente una festa che si offre al popolo, ma una festa che il popolo offre a sè stesso”: riflessione che si potrebbe estendere anche alla Sicilia.
Carnevale, spesso impersonato dalla maschera de u’ nannu (il nonno), beone e mangione insaziabile, grosso, grasso, allegro e scherzoso, era l’imperatore dei poveri, che godevano per una volta all’anno di abbondanza e spensieratezza (anche se portata agli eccessi) con feste in maschera, giostre, tornei, carri allegorici, lazzi e scherzi…
Non poteva poi mancare il momento della convivialità, si mangiavano piatti abbondanti e ci si riempiva la pancia fino ad essere satolli, soprattutto negli ultimi due giorni del Carnevale, quando c’era la tavulata del martedì grasso.
Notava lo studioso Giuseppe Pitrè che il popolo siciliano per le feste amava cucinare e consumare solo le pietanze della tradizione: ancora oggi avviene così, in occasione del Carnevale?
La preparazione dei maccheroni per il martedì grasso (che i contadini mangiavano nella maidda, la vasca di legno dove anticamente si impastavano il pane o la pasta) cominciava già il lunedì, quando le massaie realizzavano a mano la pasta e poi la mettevano stesa ad asciugare.
Il martedì all’alba si preparava il sugo con la conserva di pomodoro fatta in estate, l’immancabile astratto (concentrato), qualche tocco di carne di maiale, la cotenna e un paio di nodi di salsiccia.
Oggi, tipica nel periodo di Carnevale, a Catania (ma si comincia a diffondere anche a Palermo e in altre parti dell’isola) è la pasta con i cinque pirtusi (buchi): una speciale tipologia di maccheroni che trattengono bene il sugo di maiale.
Si tratta di un formato di pasta difficilmente reperibile nel resto d’Italia, costituito da 5 maccheroncini, l’uno attaccato all’altro; dall’alto ogni pezzo dà l’impressione di un grosso buco centrale con 4 laterali leggermente più piccoli.
La leggenda narra che un pastaio, incaricato di preparare un’abbondante quantità di maccheroni per una ricca famiglia catanese, commise qualche errore durante la produzione: i maccheroni, per uno strano capriccio del destino si attaccarono insieme, in gruppetti di cinque e sette.
Questo fortuito incidente diede vita alla pasta con i 5 buchi, che da allora ha conquistato il cuore e il palato dei Catanesi, diventando una tradizione culinaria immancabile durante il periodo di Carnevale.
Carnevale a tavola è sempre stato quindi la festa del maiale; recitava infatti il detto: "Ad ogni porcu veni lo su carnivali". Rinomata a Palermo (anche per fare le salsicce) era la carne del maialino nero, che non tutti potevano permettersi di acquistare. In campagna il maialino veniva messo all’ingrasso, in un anno arrivava a pesare un quintale.
Si uccideva tra fine gennaio e febbraio e non si buttava via nulla, si facevano le salsicce e le coste per la brace, si utilizzava la cotenna per il sugo di maiale, si friggevano le interiora, e col sangue si otteneva il sanguinaccio (sanceli o sanguinazzu), che un tempo era una vera specialità.
Il sanguinaccio era una specie di salsicciotto ripieno di sangue di maiale cotto, addolcito con uva passa, zuccata e cioccolata tagliuzzati: veniva acquistato anche per strada, dai venditori che con voce stentorea e allegra ne pubblicizzavano la bontà; veniva tagliato a fette e consumato; non era Carnevale senza sanguinaccio.
Per sgrassare la bocca a fine pasto, dopo tanta abbondanza, i più poveri consumavano il finocchio; nei banchetti dei più fortunati non potevano invece mancare i dolci, "la corona del pranzo carnevalesco".
I dolci erano tutti rigorosamente fritti nello strutto: l’usanza di friggere nei giorni di Carnevale era diffusa in passato perchè c’era la necessità di terminare le provviste di strutto prima dell’inizio della Quaresima.
Si mangiavano sfinci, cassatelle e teste di turco, pignoccata (o pignolata), ma soprattutto a Palermo il re del carnevale era il cannolo! Un verseggiatore Seicentesco cantava: “A favore de' cannoli di carnevale: Beddi cannola di Carnilivari, megghiu vuccuni a lu munnu un ci nn’è”.
I cannoli si acquistavano dalle monache o dai dolcieri, nel numero di 12, 24, 30 e più e si regalavano ad amici e parenti. Venivano disposti su una base circolare, fatta della medesima cialda di cannolo, con tante pieghe che ricordavano un turbante e veniva perciò detta testa di turco. Inutile dire che il cibo e i dolci erano accompagnati da grandi quantità di vino, che accrescevano l’allegria dei commensali, rendevano vivaci e animate le conversazioni, frequenti e pieni di doppi sensi i brindisi.
Gli eccessi del Carnevale trovavano un pretesto nei digiuni, nell’astinenza dalla carne (ritenuta piacere alimentare per eccellenza) e nelle penitenze del lungo periodo della Quaresima: "Si dovrà digiunare per 40 giorni? Allora prima meglio rifarsi…mangiando fino a scoppiare…. Poi si farà penitenza!".
Così si ragionava, almeno sulla carta: nei fatti, racconta il Pitrè, nel segreto della propria casa ognuno faceva come credeva meglio e quindi ancora il mercoledì delle ceneri in tanti consumavano di nascosto la roba avanzata dal cenone del Martedì Grasso.
Ormai oggi si è molto ridotto il carattere trasgressivo che per secoli ha caratterizzato il Carnevale, quella festa che come Goethe precisava “autorizza ciascuno ad essere pazzo e stravagante quanto gli pare e piace, ed annunzia che, salvo le bastonate, e le coltellate, tutto è permesso"; anche a tavola “l’abbondanza, la condizione socio economica del superfluo ci allontanano dalla tradizione del Carnevale... facendoci dimenticare che anche noi proveniamo dalla società del pitittu”. (Pina Olivetti)
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