LE STORIE DI IERI
Quando Montelepre fu messa in castigo
A Montelepre, in via Castrenze Di Bella 135, Salvatore Giuliano c’era nato nel novembre del 1922, dopo che la sua famiglia d’emigranti era rientrata da Brooklyn. E tra quelle modeste mura Turiddu era stato allevato dalla madre Maria Lombardo e da tre sorelle, in un clima di serenità che nel 1949 – quando avvenne l’episodio che ci accingiamo a ricordare - i familiari non ricordavano più da un tempo incalcolabile. Cioè da sei anni, fitti di eventi uno più tragico dell’altro e che avevano avuto luogo tra Palermo e Sagana, con Giuliano sempre protagonista, spalleggiato dai suoi banditi ma anche protetto dall’omertà dei compaesani. A peggiorare le cose era poi successo che, poco tempo prima di una tragica sera del 2 maggio ’49, l’abitazione dei Giuliano era stata requisita e adibita a caserma del discusso Ispettorato Generale di P.S. Un’offesa bruciante per il “re-bandito” e da vendicare nello stile dei tanti altri impressionanti assalti alle postazioni delle Forze dell’ordine che però da tempo non si erano più ripetuti. Mentre gli uomini del colonnello Luca, oltre ad ordire operazioni definitivamente misteriose, continuavano a distruggere col tritolo le grotte dei fuorilegge sui monti tra Bellolampo, Cinisi e Partinico.
Fu così che con un provvedimento che rinnovò le drastiche disposizioni prese molti anni prima dal prefetto Mori contro i paesani collusi con i briganti delle Madonie, anche Montelepre fu “messo in castigo”, per cinque giorni e cinque notti, dato che nessuno volle fornire il minimo particolare sui banditi che avevano attaccato la casermetta. Per il giornale “L’Ora”, ne scrisse con straordinaria bravura l’inviato speciale Enzo Perrone che non si limitò a ricostruire il succedersi dei sanguinosi eventi ma riuscì a disegnare un preciso profilo psicologico di quanti rifiutavano di fornire il benché minimo indizio sulla banda di Giuliano, sicuri di potere essere altrimenti stroncati da una raffica dei mitra imbracciati dallo stesso Turiddu e dai luogotenenti che il “re di Montelepre” non lo avevano ancora svenduto alla mafia e all’apparato governativo di repressione del banditismo.
Successe così che centinaia di agenti in assetto di guerra, il 3 maggio ‘49 setacciarono il paese ritirando, per cinque giorni, le licenze d’esercizio a ogni negoziante. Ivi compresi i barbieri, i salumieri, i calzolai, i vinai, i fornai e i pastifici. Mentre i lavoranti dell’unico panificio che contravvennero al “castigo” furono arrestati. Per poche ore al giorno si lasciò che aprisse la farmacia, mentre chi doveva recarsi a Palermo, magari in Ospedale, poté servirsi solo dell’unica corriera che partiva all’alba. Se la passarono altrettanto male i giornalisti che stazionavano in paese. Non solo perché vi mancavano ristoranti e locande ma anche perché gli “inviati” ebbero serie difficoltà nell’ottenere il permesso di affittare una stanza in casa di “Facciadicane”. Che era carrettiere con nove figli a carico ma la cui moglie, di solito, poteva fornire qualche letto da sottrarre alla numerosa prole e procurare due uova fritte per pranzo. Le sanzioni colpirono pure la macchina dell’espresso di Giacomino, unico barista del paese. Perché dei quattro becchi dai quali colava la nera miscela – come scrisse Enzo Perrone - fu imposto che ne funzionassero due. Ma a patto che riempissero solo le tazzine di agenti e carabinieri che all’alba tornavano in paese sfiniti da lunghe notti di confitti a fuoco e di spesso inutili rastrellamenti.
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