LE STORIE DI IERI
La Vecchia di l’Acitu che scioglieva i matrimoni col veleno
A Palermo per secoli hanno avvelenato tutto. Compreso il mare, dalla Rinella a Mongerbino, le paludi e i fiumi più pescosi. Il seicentesco gentiluomo Vincenzo di Giovanni scrisse infatti dei quintali d’anguille stordite e catturate dal padre e dagli amici attassando, cioè intossicando, gli stagni del Papireto col rizzitello. Un’erba di cui si ha ripetutamente notizia in numerosi bandi vicereali nei quali l’uso fraudolento di tale pianta era condannato - e perfino punito col taglio d’una mano – insieme all’impiego di un’altra erba chiamata spinello e il cui nome, per altri rispetti e ragioni, continua ad essere citato in “prammatiche” assai più recenti. Naturalmente, altri e ben più letali veleni “doc” non vennero nemmeno risparmiati pur di togliere di mezzo donne e uomini d’ogni condizione sociale. Tutti sotterrati per ragioni relative all’alta politica o, semplicemente, stante la mancanza del divorzio che qui era ovviamente solo uno storico e inammissibile residuato del grande Jus dei Romani. In tal senso fece epoca il processone che il 30 luglio del 1789 culminò con l’impiccagione di Giovanna Bonanno, la Vecchia di l’Acìtu. Ottantenne fattucchiera del Papireto, tratta in giudizio con le donne che al quartiere Capo portavano dovunque le sue letali pozioni e con un incredibile numero di coniugi avvelenatori e di palermitani che con l’aceto all’arsenico fornito dalla Bonanno si liberarono di parenti e amici indesiderabili.
Notizie criminali ascoltate dalle guardie sopraggiunte per sedare la rissa. E anche se a quel tempo le perizie tossicologiche non esistevano, furono le coratelle di più d’un defunto, somministrate a sfortunati cani affamati, che chiarirono tutto. Finì così che la Vecchia di l’Acitu entrò alla Vicaria con molte altre persone oltre che con la Pitarra la quale, almeno per quel 30 luglio, non fu impiccata ma fu costretta a baciare la forca dalla quale pendeva l’orribile cadavere della Bonanno. Giustiziata per malefatte delle quali forse non si rese del tutto conto. Almeno secondo qualche improbabile quanto pietoso testimone dei fatti che concesse un minimo di credibilità alla sua confessione-discolpa. Perché ai giudici, che invece non se ne commossero, la Bonanno disse che, alla fine e per quattro tarì, lei non aveva fatto altro che mettere eterna pace in così tante famiglie “scumminate” del suo rione.
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