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Carmelo Piola, un “palermitanista” di chiara fama

  • 4 gennaio 2005

Le favole si sono sempre avvicendate in città con efferati omicidi da “pulp fiction” e, immancabilmente, con una secolare infinità di rivolte generalmente finite male. Perfino per i ragazzini che nel più vicino 1944, davanti alla Prefettura di quel tempo, ebbero pesanti “razioni”di piombo al posto del pane che chiedevano. Ed ovviamente tale miscellanea d’episodi non mancò di lasciare un ricordo in molte strade e vicoli i cui nomi hanno interessato o intrigato gli autori d’ogni rispettabile stradario. Sicuramente di molte articolate “guide” dovute a “palermitanisti” di chiara fama. Quale fu appunto Carmelo Piola la cui opera risale al 1875 e nella quale troviamo abbondanti notizie tra il surreale e il moraleggiante a proposito di Piazzetta delle Sette Fate che ancora adesso si apre davanti alla Chiesa di Santa Chiara, a Ballarò. Un posto cui si interessò anche Giuseppe Pitrè che però per il suo buon carattere era propenso ad ascoltare con particolare disponibilità i dati demopsicologici, anche i più fantasiosi, che l’amata “gentuzza” gli forniva. Meno disponibile al surreale fu invece il Piola che di quelle eteree presenze nel piccolo slargo scrisse: “Quando ancora la superstizione tenea ingolfati i popoli nelle più crassa ignoranza, raccontasi da taluni impostori che tutte le sere solevano quivi apparire le fate che, con scene d’incanto e danze, conducevano seco qualche individuo, gli facevano osservare le profondità degli oceani, le profondità degli spazi e poi allo spuntare dei primi albori lo riconducevano ond’erasi dipartito. Personalmente consigliamo di visitare il luogo dopo avere letto almeno metà de “Il Maestro e Margherita”.
E non fu sicuramente una fata gentile e ballerina che procurò il nome al Vicolo Scippateste, tra le vie del Noviziato e dei Quattro Coronati.

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Nel caso dell’angusta viuzza il Piola fu ancora più realistico nel tramandare una bruttissima notizia da cronaca nera. “Ivi un marito” - del quale egli non rivela l’identità ma certo un brutto tipo di cui tenne conto chi introdusse nei codici il delitto d’onore – “avendo colto la moglie in flagrante adulterio col drudo, ammazzò ambedue e, staccate le teste dal loro busto, le espose alla vista dei vicini abitanti”. Tale e quale il boia della giustizia cittadina che “scippateste” il popolo appropriatamente chiamava. Mentre, secondo alcuni dei nostri vecchi, il nome di un altro notissimo vicolo del mandamento Albergheria–Palazzo Reale attiene ad una rivolta che nel Settecento si concluse senza la scontata strage per il gesto comunissimo di un capopopolo. Uno con la testa sulle spalle e che volle – a differenza dei drudi precedenti – che essa gli rimanesse bene attaccata. Ci riferiamo al Vicolo Pesacannone, sul quale il buon Piola esordì con un perentorio “Volgarmente questo vicolo addimannasi pisciacannuni, ma se ne ignora l’origine”. E su tale origine oltre a sbellicarsi di risate furono parecchi i palermitanisti che provarono a dare una spiegazione. Noi preferiamo quella relativa a un capo rivolta che era riuscito, insieme ad altri disperati, a rubare un cannone con polvere e miccia alle truppe del viceré. Ma che, trainato dai compagni a cavallo della medesima bocca da fuoco con la miccia già accesa, giusto dall’angolo dell’attuale vicolo intravide sugli spalti di Palazzo Reale un apparato d’artiglieria tale che avrebbe polverizzato quell’unico cannone e i molti rivoltosi circostanti. Sicché, non per essersela fatta nei pantaloni, come volgarmente si dice, ma obbedendo a un preciso istinto di conservazione il vessato concittadino si fece furbo e decise di non potere fare altro che spegnere all’istante la miccia che bruciava rapidamente. Il modo in cui lo fece riteniamo che indovinarlo ora non sia difficile per nessuno.

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