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Bellina, Birritta russa e gli altri: "spìrdi" e "malùmmiri" che terrorizzavano i siciliani

Lo spiritismo era un fenomeno di grande interesse per intellettuali, studiosi,  aristocratici. Il popolo temeva invece gli esseri soprannaturali, le anime inquiete e gli spiriti infelici

Maria Oliveri
Storica, saggista e operatrice culturale
  • 11 marzo 2022

La medium Eusapia Paladino al Circolo Minerva di Genova nel 1901

Tra la metà e la fine dell’Ottocento lo spiritismo era un fenomeno di grande interesse.

Aristocratici e personaggi di spicco della ricca borghesia amavano riunirsi nei salotti delle case private o nei circoli e (ricorrendo ai poteri medianici di uno dei presenti) cercavano di stabilire un contatto con “entità soprannaturali”.

Una delle pratiche più diffuse per comunicare con l’aldilà era l’utilizzo del tavolino, che al culmine di una seduta spiritica cominciava a sollevarsi e a ricadere, battendo le lettere dell'alfabeto.

Si legge su L'Illustration, giornale francese del 1853: “Tutto il mondo ha oggi lo spirito disturbato da una esperienza che consiste in farsi muovere dei tavoli.” La curiosità per il soprannaturale era strettamente connessa a volte anche a studi pseudoscientifici: in Sicilia ad esempio sono noti i tentativi di utilizzare la fotografia per mostrare ectoplasmi e fantasmi da parte del palermitano Giovanni Damiani che nel 1874 venne eletto presidente del Sodalizio Psicologico.
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“Spiritista” era anche il noto scrittore verista Luigi Capuana. Nel 1884 pubblicò Spiritismo?, un compendio sulla pratica medianica che riporta anche l’ipnosi effettuata nel 1864 su Beppina Poggi, una fanciulla fiorentina, perseguitata (se non addirittura posseduta) dallo spirito di Ugo Foscolo.

Il sentimento popolare dominante nei confronti degli “spettri” restava tuttavia il timore: il timore per il ritorno dei morti già presente nelle società antiche. L’assistenza degli infermi, i riti della buona morte e la pietosa sepoltura dei defunti erano pratiche diffuse, così come la celebrazione di messe in suffragio delle anime purganti. Tutte queste opere di Misericordia scongiuravano definitivamente la possibilità del ritorno dell’anima di un morto nel regno dei vivi.

Le anime dei defunti ossia gli spettri, i fantasmi, venivano chiamati spìrdi (spiriti), malùmmiri (malombre), fantasimi o tampasimi (da cui tampasiari, errare come un fantasma) oppure armi cunnannati (anime condannate) ovvero le anime di coloro che erano morte in modo violento (gli assassinati, i giustiziati, i suicidi) e che erano state condannate a gemere, a lamentarsi e a vagare senza pace.

Secondo un’antica tradizione a Palermo gli abitanti del Borgo e della Kalsa credevano che gli “spiriti” fossero angeli scacciati dal Paradiso e costretti a vivere sulla terra. Nelle case si teneva sempre un lume acceso, per rischiarare il buio e tenere così lontani gli spettri che, durante il giorno dimoravano nei vecchi palazzi disabitati, solitari e abbandonati, dove nessuno osava mai entrare e di notte, col favore delle tenebre, venivano fuori e vagavano, alla ricerca di un corpo in cui incarnarsi. Spesso queste presenze inquietanti si manifestavano con fischi, strani stridori, suoni di campanelli e con un forte rumore di grosse catene. Se si diffondeva la voce che una casa era infestata dai fantasmi difficilmente il proprietario sarebbe riuscito ad affittarla.

La fantasia del popolo siciliano ha elaborato nei secoli diverse leggende su esseri soprannaturali, anime inquiete e spiriti infelici. In Sicilia “chi avesse vaghezza di conoscere fantasmi ne troverebbe parecchi qui e là” scriveva infatti Giuseppe Pitrè: Bellina la donna biscia per esempio, un fantasma che appariva spesso nel territorio di Erice e che secondo la credenza locale era stata trasformata in serpente a causa di un maleficio.

Bellina si mostrava all’improvviso, nelle calde giornate d’estate, nel vano di una finestra, in forma di bellissima giovinetta per poi mutare aspetto trasformandosi in un orribile serpente con le fauci spalancate e gli occhi di fuoco. “Si guasta, si allunga, allunga le gote, allarga il mento e la fronte...e gli occhi, pur ora si belli diventano lividi e lucion di fiamme.” raccontava il Pitrè.

Un altro fantasma ericino che incuteva grande terrore era Birritta russa, così chiamato perché indossava sempre un berretto rosso: un omone lungo lungo, con il volto smagrito simile a un teschio e due fiammelle al posto degli occhi. Era lo spirito di un soldato spagnolo, morto sulla forca senza essersi pentito e condannato per l’eternità a soffrire e a vedere sempre davanti a sé il sangue innocente del giovane che aveva tentato di uccidere. Catarina Turri era detto il fantasma di una vecchia signora che si manifestava tra le rovine del castello di Termini Imerese, spaventando bambini e ragazzi e facendoli fuggire terrorizzati.

A Modica compariva ogni notte vicino alla chiesa di San Giovanni il fantasma della lavandaia, morta all’improvviso perché picchiando al lavatoio sua comare era venuta meno al giuramento del comparatico ed era stata punita da San Giovanni. Tutte le notti lo spirito della lavandaia doveva recarsi al lavatoio e doveva mettersi a strofinare e risciacquare i panni. Quando all’alba il gallo cantava il fantasma saliva sul tetto della chiesa e si dileguava.

A Vittoria molti anziani affermavano di aver visto lo spettro del monaco del feudo di Scaletta che si materializzava ogni notte, passeggiava a lungo e a volte emetteva un urlo agghiacciante: un segnale d’ allarme, per avvisare la popolazione che le navi dei pirati si stavano avvicinando a Scoglitti. Quando cessò la pirateria, lo spirito smise di manifestarsi.
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