STORIA E TRADIZIONI
"Agneddu e sucu e finiu u vattiu" (e pure le feste): che significa se in Sicilia ti dicono così
Dei normanni tutto possiamo dire, ma non che non era gente di bella, soprattutto a tavola, e qui in Sicilia, ai tempi, trovarono terreno fertile per certe usanze
Dolci tipici siciliani
Più varie ed eventuali che, in ogni caso, pari piccatu iccare na munnizza che poi Gesù piange e un si fanno ste cose.
In pratica non si smette di pistiare solo perché c’è la fine delle feste programmate, ma si va avanti, con notevoli movimenti mandibolari, in modo più o meno continuato, fino all’Epifania che tutte le feste s’avissi a portare via ma u pitittu mai Maria!
A tal proposito mi viene in mente mia nonna da parte di papà, Elena, grande donna, capace di tenere testa e sfamare sette figli con relative mogli/fidanzate ed un nugolo di nipoti inselvaggiti che se non ci stavi accura si manciavano pure i peri ru tavolino.
In effetti la frase stessa fa supporre che debba essere in corso quell’evento religioso denominato battesimo, anche se oggi come oggi, in effetti, tale affermazione viene utilizzata anche in altri ambiti. Ad esempio: “Iachì ma comu finiu, u zzu Caliddu tu purtau cchiu ddu travagghiu c’avia a ffari pu dutturi?”
«Ma chì Totò, a nnuddu haiu vistu! Agneddu e suco e finiu u vattiu». Così questa affermazione è spesso usata anche per indicare la sorte infausta di un progetto in cui ci siamo cimentati ma che non è andato come speravamo, oltre che per indicare la fine di una festa o evento dove ci sono più persone.
Dei normanni tutto possiamo dire, ma non che non era gente di bella, soprattutto a tavola, e qui in Sicilia, ai tempi, trovarono terreno fertile per certe usanze.
Tradizionalmente, era loro abitudine fare lunghissimi e sontuosi pranzi in occasione proprio del battesimo di uno dei pargoli di corte. E non si badava e spese perché più il banchetto era ricco, più pietanze c’erano, più persone partecipavano e più si prevedeva che la vita ru picciriddo sarebbe stata prospera.
Non di rado in queste occasioni i nobili facevano in modo da far "partecipare" anche il popolino, in modo tale che era festa per tutti, e per i poveracci era un’occasione quasi unica in cui si potevano gustare pietanze che normalmente sarebbero state proibitive.
Quando proprio le pettorine di metallo degli invitati venivano deformate dalle panze ed ai bustini delle dame cedevano le stringhe, si procedeva con l’ultima portata che era sempresempre l’agnello cotto cu sucu ( che probabilmente ai tempi non era u bello sucu i pummaruoro come lo intendiamo oggi noi, perché non era ancora usato in tavola da noi, ma semplicemente una riduzione di frutti, ortaggi ed altre bacche. D’altronde ancora oggi da noi è molto più diffuso l’agnello aglassato che non quello fatto proprio con la salsa di pomodoro).
Ma mica ai tempi si andava dal macellaio a prendere l’agnello, affatto! L’animale era scelto personalmente dal primogenito della famiglia, se si trattava di un secondo figlio, o dal padre del bambino nel caso di trattasse del primo figlio, nonché da lui stesso ucciso e macellato.
Tutto questo perché, in ogni caso, sto povero armaluzzo, anche per ovvi motivi religiosi, era considerato un simbolo di salute e prosperità e terminare l’impegno gastronomico con questa pietanza era beneaugurante per il piccolo ed i suoi familiari.
E non importava se magari proprio non ce la facevi più a mangiare, l’agneddu cu sucu doveva essere consumato a qualsiasi costo, con il padre normanno che magari ti diceva “amunì manciatillo senza pane”.
Ecco allora che questo usanza si è tramandata fino ai giorni nostri, più che altro come modo di dire, infatti ancora oggi viene usata questa affermazione in diversi ambiti per indicare qualcosa che finisce, sia in negativo che positivo.
Per cui, ora, mettetevi l’animo in pace ca i fieste fineru: itivinni a travagghiari e accuminciate i diete, picchì “Agneddu e sucu e finiu u vattiu”!
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