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Un belvedere in Sicilia luogo di tragedia (e di speranza): dov'è a "Facci dispirata"

È nota ad alcuni per l'abitudine di respirare aria marina fresca, da qui "affaccio a rispirata"; mentre ad altri, per una doppia tragedia. Vi raccontiamo la sua storia

Francesca Garofalo
Giornalista pubblicista e copywriter
  • 5 dicembre 2024

La vista da Ortigia

In bilico fra le onde del mare e il vento del nord-est che non lasciano scampo. I cavalloni a volte fanno paura, non puoi placarli con lo sguardo o la speranza, a meno che la natura non intervenga.

Di ciò, erano consapevoli le mogli dei pescatori che nell’isola di Ortigia a Siracusa attendevano i mariti davanti a Facci dispirata. Uno spazio detto anche Belvedere San Giacomo, che avanza prepotente alla fine di via della Maestranza.

In questo stesso punto, fino a circa mezzo secolo prima esisteva il Nettuno, uno stabilimento balneare, nei ricordi estivi di ortigiani e siracusani come punto di ritrovo.

Una scaletta in legno accoglieva gli affannati e accaldati insieme a don Severino, dal quale potevi affittare una cabina e all’occorrenza persino il costume.

Ma lungi dai ricordi balneari e afosi d’un tempo, "Facci dispirata" è nota ad alcuni per l'abitudine di respirare aria marina fresca, da qui "affaccio a rispirata"; mentre ad altri, per una doppia tragedia.
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Per ricordarla dobbiamo andare poco lontano dall’affaccio nel quartiere Graziella - chiamato così per la Madonna delle Grazie protettrice dei marinai - un tempo abitato da famiglie di pescatori.

E qui era consuetudine, prima di andare in mare, affidare l’incolumità proprio alla provvidenza della Madonna. Di solito erano i giovani ad allontanarsi, mentre gli anziani stendevano o rattoppavano le reti sulla banchina di “Mascia Rua - strada maestra”.

Fra le giovani promesse dell’attività dei padri c’era Tanuzzu Pilastru (pilastro), nome legato alla ‘ngiuria o soprannome per l’aspetto simile a una colonna robusta.

Lavoratore instancabile, per Tanuzzu non c’era caldo o freddo che tenessero. Il motivo era il più sommo: la famiglia. La sua sposa si chiamava Mariuzza, un’orfana di madre “beddha comu lu suli r’astati - bella come il sole d’estate” nell’aspetto, ma fragile come le foglie d’inverno in quanto a salute.

Nonostante le condizioni cagionevoli, dopo un’odissea Mariuzza dà alla luce Vastianeddhu. E con lui arrivano anche altre spese che, insieme a una casa da costruire, mettono a dura prova la stabilità economica. I soldi non bastano mai mentre le ore di lavoro sono creste d’onde sempre più elevate.

Un’altra giornata di mare si prospetta per Tanuzzu e oltre alla provvidenza, prima di salpare, si affida all’esperienza con uno sguardo al cielo. Ma il rosso di sera stavolta è una profezia vana.

Dal tramonto, nuvoloni scuri e malvagi avanzano e da occidente arrivano a levante, in quella parte di mare estranea ai comuni pescatori ma non a Tanuzzu, Sansone rematore.

Gli altri rinunciano, mentre lui sospinto dal vento di dicembre sfida madre natura e va a procurarsi quel denaro necessario alla famiglia. Le ore passano e il cielo libera dalla sua rete sottili gocce di rugiada che diventano lacrimoni di tempesta.

Eolo incalza e intimorisce di più i pescatori. Nel frattempo Mariuzza attende a casa, i tuoni diventano battiti cardiaci, la pioggia lacrime amare e le folate di vento preghiere effimere. Una sola grazia chiede: il ritorno a casa del marito, non importa il pescato. Le ore incedono e il maltempo resiste, così Mariuzza “ci fici l’incontro - gli fa l’incontro”.

Alcuni marinai tornano e roboanti si fanno i moniti: “Nuttata d’infernu è chista, figghia mia - È una notte d’inferno figlia ma!”. La vista rimane l’unica speranza e vaga per quel luogo estraneo dove soleva avventurarsi Tanuzzu.

Nulla, non una luce; non un segno e un ultimo quesito fatale: “Âtu visto a Tanuzzu - Avete visto Tanuzzu?”. Una risposta si infrange alle orecchie con la stessa forza di un’imbarcazione su uno scoglio: “Tanuzzu?! Poviru figghiu! Visti ant’ura ca ‘u lumi si stutau! Vatinni a’ casa, figghiuzza, vatinni! - Tanuzzo? Povero figlio! Ho visto poco fa che il suo lume si è spento.

"Vai casa figlia, vai via” seguito da un segno della croce.

Se hai mai perso chi ami, tu che leggi, saprai cosa intercorre dalla consapevolezza della fine all'inizio dell’agonia.

Il cuore perde un battito e il respiro il suo ritmo. La disperazione pervade ogni nervo, tessuto e ricordo. Uno stato di disperazione suprema che, in questo caso, spinge Mariuzza a scavalcare l’ultimo ostacolo fra lei e Tanuzzu: il parapetto del belvedere. Un tuffo verso il baratro. Agghiorna un nuovo sole e la tempesta del giorno prima sembra solo un incubo.

Il corpo di Mariuzza giace esanime su uno scoglio, lo stesso dove il mare anni dopo restituirà il corpo di Tanuzzu. Quell’affaccio vicino al punto dove don Severino allestiva il sito balneare diventa così per tutti "Facci dispirata".

Oggi lo stabilimento e Severino non ci sono più e nei giorni di grecale i schigghi del mare sembrano pianti disperati non solo di Mariuzza, ma di tutte quelle donne che aspettavano i mariti.

Un’attesa angosciante frammista a odore di iodio e tanfo di legna fradicia lontana ormai e parte di un piccolo mondo antico.
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