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Tra misteri, spiriti e antichi sacrifici umani: vi portiamo sul punto più alto di Agrigento

Siamo alla Rupe Atenea, un luogo sospeso nel tempo e nello spazio che racchiude storie, segreti e misteri antichi che avvolgono la città e la campagna agrigentina

  • 3 maggio 2020

La Rupe Atenea, sul punto più alto di Agrigento (foto Balarm)

C’è un luogo, ad Agrigento, misterioso e come sospeso nel tempo. È un luogo che fa paura per la sua natura anfibia: non è isolato ma appartato, non è fuori dalla città ma la contiene, non è posto al centro ma lo torreggia imperioso e taciturno.

È una paura perversa, oltretutto, perché non affiora in aperta campagna, nello scenario di un giallo d’appendice, ma dentro la città stessa; ciò nonostante questo luogo la trascende, la ripudia, la beffeggia, e se ne tiene a debita distanza in uno scontroso ritiro. Siamo alla Rupe Atenea, nel punto più alto di Agrigento, la cui vetta è speculare alla collina su cui poggia maestoso il complesso della Cattedrale.

La città, che sta nel mezzo, sotto, pare segni il tacito patto di non belligeranza fra due luoghi così incantevoli e così provocatoriamente disparati a dare ognuno il proprio senso al destino stesso di Agrigento. È il segno opposto della bellezza che seduce: un’epifania d’ombra nel chiarore devastante. Per giungere alla Rupe Atenea si attraversano i palazzi pregevoli di una borghesia mansueta, soffocata dai clamori di una scuola elementare. Tutto è banalmente ordinario, cioè rassicurante.
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Giunti a una prima soglia la strada si biforca fra l’ascesa e la caduta: su per la rupe, o dabbasso verso il centro. Lì non c’è nulla: un campetto abbandonato, il muro di cinta di una villa, l’asfalto ingrigito dal tempo. C’è però una piccola chiesa sconsacrata del XVI secolo, piccina come una cappella di campagna, costruita sulla cresta arenaria del colle. È la chiesa della Madonna delle Forche che si suppone costruita su un basamento più antico sotto il quale potrebbe trovarsi un antico tempio dorico.

Tutta quest’area fu utilizzata dal 1837 come fossa comune in cui seppellire gli ammalati di colera, e la chiesa divenne così cappella cimiteriale per poi essere abbandonata agli inizi del novecento. Il costone a nord sottostante a essa, nel periodo della guerra, venne utilizzato per le fucilazioni di massa. Dal mistero di questa chiesa, che ha traccia degli orrori della malattia e delle tragedie della lotta armata, pure se le nasconde nella poesia pascoliana dei suoi modesti tratti rinascimentali, inizia il cammino ai ben altri misteri della Rupe Atenea.

È appena il movimento di un passo che l’atmosfera del luogo muta d’aspetto, precipitosamente. L’asfalto cede il posto a uno sconnesso acciottolato lavico, le voci diradano fino a scomparire, le poche automobili sostano come non si fossero mai mosse, le case si fanno con i tetti bassi e gli ingressi umidi e angusti. Eppure, dall’altra parte, sui loro affacci, c’è la vista più bella di tutta la città: giardini che degradano scoscesi e rigogliosi, una luce felice coma una rinascita, il mare che balugina lontano con le sue preziose trame d’azzurro.

Con l’incanto di un illusionismo, si percepisce la meraviglia mentre la strada si fa sempre più ripida, sinuosa e stretta, quasi debba chiudersi in una morsa insensata; e invece no, si conclude a un piccolo slargo arioso, definito da un muricciolo schiacciato che provoca a una vista troppo repentina su uno strapiombo paralizzante.

Finisce la città e comincia la Rupe, un luogo il cui nome sembra richiamare l’eco di antichi sacrifici umani. Coincidenze, anche se il luogo, circospetto e congeniale agli amori clandestini, abbia, in effetti, nel tempo assistito al triste arrendersi alla vita di qualcuno, e, pochi anni addietro, ben più inquietante, sia stata rinvenuta all’interno di un casolare fatiscente lì vicino una tunica nera, con cappuccio, di quelle che si usano nelle messe nere per garantire, coprendo il volto, l’anonimato tra
gli adepti.

Storie. Eppure la polizia ha repertato tutto, individuando anche non meglio definiti segni a sostegno di una pista spiritica. Adesso non rimangono che due sole strade: un viottolino sull’erba, striminzito, che abbraccia il colle e porta in cima, o la strada di una vecchia villa abbandonata che mette davvero paura. Non dimentichiamola, la villa; mettiamola solo da parte.

Percorrendo la stradina al ciglio del colle, ecco che si giunge a dominarne la sommità, asfissiati dall’aria, contro un paesaggio di rara sontuosità. Eppure l’ombra è dietro l’angolo, ancora una volta, e prende la forma di una tortuosa struttura ipogeica fatta di cavità artificiali, tra camere e cunicoli, con numerosi ingressi che rassicurano il passaggio in fuori, e, in realtà, lo nascondono come il gioco di specchi di un labirinto.

La cavità più grande – lo riferisce Marco Falzone, guida turistica che ben conosce questi luoghi per averli studiati privilegiando nel suo lavoro i percorsi meno convenzionali - per le sue caratteristiche di assoluto dominio visivo e la sua posizione strategica, venne utilizzata come comando della 207^ divisione costiera durante l’ultima guerra, nella battaglia di Agrigento avvenuta tra il 12 e il 16 luglio del 1943 tra gli uomini del Regio Esercito e quelli della 3^ divisione americana del generale Truscott, che aveva avuto incarico dal generale Patton di catturare Agrigento e Porto Empedocle.

A conferma di questa ipotesi la presenza di due osservatori militari e dei resti di un poligono di tiro in chiarissimo stile fascista. Escludendo l’uso antico di queste strutture per ragioni di approvvigionamento idrico, la spiegazione più plausibile per queste cavità è quella di opere di sepoltura, per il riposo dei morti.

Un altro cimitero, più incerto e misterioso, affondato nella storia, a richiamo di un insediamento greco che certamente dovette esserci in questo luogo, dove numerose campagne archeologiche hanno portato alla scoperta di numerose strutture di cui ancora oggi si ignora la funzione.

Ridiscendendo dal lato opposto, oppure imboccando uno dei cunicoli, ecco che ci si trova al mistero della villa abbandonata. L’avevamo messa da parte, per la fine di questo viaggio. Costruita a ridosso di queste cavità che la assediano come bocche spalancate, mortificata da alcune enormi antenne televisive come giavellotti al cielo, è un’enorme struttura presto abitata e subito evacuata.

È solo una sensazione, ma la si desume dagli interni ormai in completo stato di abbandono: deiezioni animali, opere di sciacallaggio, imposte divelte e vetri in frantumi. “Villa Salemi”, così recita il rilievo sul grande cancello in ferro rugginoso all’ingresso della casa, sempre aperto. Gli aghi di pino invadono il patio, da una scala semicircolare si accede al secondo piano dove si trova una strana stanza di ceramiche verdi, con due colonnine che delimitano una piccola alcova. Una camera da letto, forse, ma strana, bizzarramente felliniana.

Non ci sono di certo i fantasmi, in un luogo così; è solo l’ignominia dell’abbandono. Al punto che molti anni fa, appena sotto questa villa, c’erano gli studi televisivi di una rete locale. E però, chi era lì, racconta di strani rumori, sinistri baccani, porte che avrebbero dovuto star chiuse, luci che si accendevano da sole.

Si cambiò sede, in un’anonima periferia, e cessò tutto. Storie, racconti di credulità popolare, o gli effetti fisici dell’elettromagnetismo delle antenne. A ogni buon conto, oltrepassato quel cancello, difficilmente qualcuno potrebbe mai tornare indietro ad aspettare che il tramonto si faccia notte.
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