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Per Modugno è "Amara e bella" ma la Sicilia si svuota ancora: destino crudele o precisa volontà

Per troppo tempo la responsabilità del fenomeno crescente dell’emigrazione è stata attribuita a questa terra che si mostrava non solamente amara ma anche avara

  • 2 febbraio 2021

Domenico Modugno nel 1971, attraverso una canzone popolare, esprimeva con pochi e incisivi versi tutta la sofferenza di chi è costretto a lasciare la propria terra in cerca di lavoro. Una terra “amara e bella” dove ai “cieli infiniti” corrispondono “volti come pietra e mani incallite ormai senza speranza”.

Una sintesi perfetta del dramma dell’emigrazione che è in atto nel nostro paese dal Sud verso il Nord, dalla Sicilia alle regioni settentrionali d’Italia e d’Europa. Un dramma iniziato con l’annessione della Sicilia allo Stato Sabaudo e perpetrato negli anni in modo crescente e, a tratti, immorale.

Perciò, per quanto io sia un'ammiratrice sfegatata di Domenico Modugno, non sono d’accordo nel ritenere che la Sicilia sia una terra amara.

Per troppo tempo la responsabilità del fenomeno crescente dell’emigrazione è stata attribuita a questa terra: la Sicilia che si mostrava non solamente amara ma anche avara nel senso che negava di fatto la possibilità ai suoi figli di trovare un lavoro con cui potere costruire un futuro per sé e la propria famiglia, obbligandoli a emigrare.
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Tale narrazione va smantellata con decisione e con cognizione di causa ripercorrendo, seppure in modo sintetico, la storia della Sicilia. Quella vera non quella che ci propinano ancora oggi troppi testi scolastici, infarciti del peggior tipo di antimeridionalismo pregiudizievole e mendace.

È inconfutabile, infatti, che prima del 1861, gli emigrati siciliani erano sparuti gruppetti di contadini che andavano in cerca di terre coltivabili e si spostavano pertanto dalle terre demaniali a quelle baronali o viceversa, oppure dalla campagna alla città in cerca di più facili guadagni.

Ma è dopo l’Unità, come afferma il noto storico siciliano Francesco Renda (1922/ 2013) nella sua monumentale opera "Storia della Sicilia dalle origini ai giorni nostri", che assistiamo impotenti a una vera e propria “esplosione migratoria”.

Tale affermazione è supportata da dati statistici inconfutabili che hanno visto diminuire la popolazione siciliana dal 1990 ad oggi di 5.000.000 residenti, a 4.851.833 (dati al 31/08/2020), una cifra mai registrata prima.

Una tendenza pericolosissima, un dato allarmante a testimonianza della desertificazione umana in atto nella nostra isola di cui nessuno parla. I mass-media ignorano il fenomeno né la classe politica dirigente se ne occupa più di tanto.

Perché tanto silenzio?

Ma se i siciliani, per primi, accettano questa situazione in silenzio, se soffrono senza ribellarsi, non possiamo attribuire la colpa ad altri. I meridionali si sono rassegnati: si sono convinti che questo è l’amara sorte che ci tocca di subire. Subire e tacere! E quando finalmente scoprono il trucco e l’inganno, vorrebbero protestare e avere accesso ai mezzi di comunicazione nazionale per denunciare il dramma dell’emigrazione.

Ma ciò di fatto viene impedito, mentre continua indisturbata e aggressiva una campagna offensiva e denigratoria nei confronti dei cittadini definiti, tout court, terroni con accezione negativa.

Una storiografia mistificata ha ingenerato nella mentalità del siciliano che il Sud è sempre stato povero, ignorante e lassista per cui ci meritiamo questa sorte di cui siamo gli unici responsabili e anzi dobbiamo ringraziare i fratelli settentrionali che ci accolgono, per usare un eufemismo, e ci fanno lavorare nelle loro fabbriche al nord.

In passato, i terroni erano impiegati o sfruttati (decidete voi) per lavori umili ma adesso richiedono operai specializzati, tecnici, creativi, diplomati e laureati.

Dovremmo ringraziare per questo? Non intendo certo fare una dissertazione di tipo socio-antropologico della questione ma, a dirla tutta, la situazione va capovolta.

Appare dunque chiaro, anche all’osservatore più distratto, il carattere della gestione politica della nostra classe dirigente di tipo coloniale ai danni della Sicilia e di tutto il Sud che mira non soltanto ad una evidente distribuzione diseguale della ricchezza e del lavoro, generando un divario sempre crescente tra le due parti che corrono a velocità diverse a svantaggio ovviamente del mezzogiorno.

Ma ciò avviene ormai, in modo sempre più evidente e sfrontato per le risorse umane. Secondo Riccardo Padovani, attuale direttore della SVIMEZ, dal 2001 a oggi il Sud ha perso 744 mila cittadini emigrati in cerca di lavoro. Di questi ben 526 mila sono giovani tra i 15 e i 34 anni di cui ben 205 mila sono laureati.

Con enormi sacrifici, le famiglie siciliane fanno studiare i loro figli fino alla sospirata laurea per poi consegnarli, belli e pronti, alle aziende del nord che nulla hanno investito per la loro formazione. E così il sud è diventato non soltanto serbatoio di voti dei partiti nazionali ma anche serbatoio di mano d’opera specializzata e di laureati a costo zero.

Tutto ciò, decisamente improntato alla dialettica dello sviluppo/sottosviluppo del Sud. Infatti, le regioni meridionali devono godere di un certo sviluppo economico e occupazionale ma soltanto quanto basta per contenere il malcontento che serpeggia più o meno apertamente in Sicilia e per mantenere le condizioni di territorio atte al consumo delle merci prodotte al nord.

Un doppio attacco alla fragile economia meridionale che, se da un lato, fornisce materia prima, d’altro lato diventa sacca di importazione dei prodotti settentrionali a scapito della produzione locale. É noto a tutti, infatti, che l’area privilegiata di esportazione delle merci prodotte al nord non siano le regioni europee o estere ma il sud d’Italia.

A questo punto risulta di facile interpretazione la condotta dei governi italiani dal 1861 ad oggi che hanno considerato la Sicilia come una vera e propria colonia, distruggendo in pochi decenni l’economia locale, dislocando maestranze al nord e impiantando le principali produzioni industriali nelle regioni settentrionali accompagnando e sostenendo tale economia con la costruzione di infrastrutture che ne facilitano i trasporti e le comunicazioni.

Al Sud soltanto strade obsolete, spesso tracciate sulle vecchie vie costruite ai tempi dei Borboni, dissestate e inadatte a un equo sviluppo dell’economia locale che, per non morire del tutto, grazie all’ingegno dei coltivatori e degli imprenditori siciliani ha mirato ai prodotti biologici di alta qualità trovando sbocchi commerciali soprattutto all’estero.

Il Mediterraneo non è più il centro del mondo ma tutto si è spostato verso altre latitudini dove il lavoro sembra essersi concentrato in modo quasi esclusivo lasciando ai margini la Sicilia e tutto il meridione.

Un fato ineluttabile, un destino crudele o una precisa volontà politica di lasciare ai margini proprio quelle regioni che un tempo erano tra le più industrializzate d’Europa e che vedevano le città di Napoli e Palermo tra i primi posti in classifica per la presenza di industrie, commerci e traffici nazionali e internazionali?
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