PERSONAGGI
Palermitano, nobile e amico di Garibaldi: la vita (avventurosa) di Enrico Albanese
Nel suo palazzo c'erano incontri sovversivi, a cui partecipava l’élite cittadina: ufficialmente si discuteva di anatomia chirurgica. Non tutti ricordano la sua storia
La statua di Enrico Albanese
"L’aspra pietra protegge e perpetua, nell’aldilà, il suo sogno garibaldino", così si legge sulla sepoltura di Enrico Albanese, nobile figura di gentiluomo e filantropo, valente chirurgo, prode soldato e generosissimo amico di Garibaldi.
Nato l’11 Marzo del 1834 a Palermo, Albanese visse in Via Alloro, nel Palazzo Sambuca, una costruzione tardo-barocca (detto Torre Maniace), ristrutturata in anni recenti, dopo lunghi anni di abbandono e rovina, a seguito dei danni riportati durante il secondo conflitto mondiale nel 1943.
La madre Francesca contribuì alla formazione culturale di Enrico e del fratello Achille; il padre, l’avvocato Giovanni, morì quando i due figli erano ancora ragazzi.
Di aspetto gradevole e di mente brillante, Enrico conseguì la laurea in "chirurgia” nel 1855 e in "medicina" nel 1861 per poi percorrere tutte le tappe della carriera universitaria, fino alla presidenza della Facoltà di Medicina del Regio Ateneo palermitano.
Albanese fu tra i primi chirurghi, non solo in Sicilia, ma nell'intero Regno d'Italia, a utilizzare sale operatorie antisettiche per l'esercizio dell'attività.
Nel 1868 (per la prima volta nel Regno) eseguiva in un malato di setticemia la trasfusione sanguigna arteriosa. Nell'esercizio della sua professione medica, si occupò anche di sperimentare la cura del cancro attraverso iniezioni (secondo il metodo di Thiersch), sia per il cancro epiteliale alla faccia (riferì di quattro casi di guarigione), sia per il cancro fibroso della mammella ( ebbe solo un caso di guarigione sui quattro trattati).
Nella sua accademia fondò una rivista scientifica, la "Gazzetta Clinica dello Spedale Civico di Palermo Organo delle Cliniche Universitarie", vi pubblicavano i loro studi i più illustri professori della Facoltà di Medicina dell'Ateneo Palermitano.
Negli ultimi anni della sua vita fu professore incaricato di Clinica Chirurgica alla Regia Università di Palermo e Preside della Facoltà di Medicina, fino al 1889, anno della sua morte.
Albanese però non fu solo un medico e un cattedratico, ma anche un fervente patriota. Coltivò sin dalla giovinezza (insieme al fratello Achille) un profondo desiderio unitario, divenendo un cospiratore accanito. Enrico si era avvicinato ad alcuni siciliani, come ad esempio il sacerdote olivetano Ottavio Lanza di Trabia e aveva maturato una coscienza politica volta alla realizzazione dell'Unità d'Italia.
Nel suo Palazzo si svolgevano incontri sovversivi, a cui partecipava l’elite cittadina: ufficialmente si discuteva di anatomia chirurgica e non di politica. Albanese fu anche un valoroso combattente.
Su raccomandazione del Prof. Gorgone, ritenuto allora il più illustre chirurgo siciliano, fu invitato sin dal 1860 a far parte dell'esercito di Garibaldi. Prese parte così a tutte le guerre d’indipendenza e meritò alte lodi ed attenzioni ufficiali. Fu insignito della Croce Militare di Savoia. Fu "garibaldino senza macchia e senza paura".
Divenne medico personale di Garibaldi, ferito il 29 agosto 1862 in Aspromonte e nella battaglia di Monte Suello (3 luglio 1866 durante la terza guerra d'indipendenza) e lo avrebbe seguito affettuosamente nella prigionia, fino al ritorno a Caprera. Scrisse anche un diario dell’impresa e la pubblicazione venne poi curata da Giuseppe Federico Pipitone.
Riguardo alla ferita in Aspromonte (ricevuta da Garibaldi nello scontro con i bersaglieri): Albanese, insieme ai colleghi Pietro Ripari e Giuseppe Basile operò il Generale, e compilò in diario clinico, in cui illustrò tutte le fasi dell’assistenza medica prestata.
Il 3 settembre 1863 Enrico sposava a Chiavari la nobildonna milanese Emilia Venini che gli era stata presentata dal maggiore Enrico Cairoli. La coppia ebbe nel 1867 un figlio, a cui venne imposto il nome del primo marito della signora Albanese: Manfredi (esperto in farmacologia, molti anni dopo sarebbe diventato professore e direttore dell’istituto di materia medica dell’Università di Pavia; sarebbe morto nel 1912, con grande strazio della madre, ottantenne).
Enrico Albanese aveva conosciuto Emilia Venini al campo di Milazzo, e se ne era subito innamorato. Il sentimento era stato ricambiato: il medico era un bel giovanotto, gentile quanto forte; "un siciliano puro sangue, tarchiato, muscoloso, quadrato, portava un barbone nero e sembrava Vulcano".
Emilia era vedova di Manfredi Ginami dei Licini ucciso a Milano con un colpo di fucile, la mattina del 5 Giugno 1859. Il Ginami in compagnia di un amico si era recato nè pressi del castello spintovi più che altro dalla curiosità. Il soldato austriaco che era di sentinella, aveva intimato ai due civili di allontanarsi.
L’amico era prontamente fuggito, invece il Ginami aveva indugiato ed era stato raggiunto da un colpo di fucile che lo aveva ucciso. La vedova del Ginami, affranta dal dolore, si fece suora di Carità, si arruolò quale infermiera con le truppe garibaldine e insieme al cognato segui le camice rosse in Sicilia.
Qui la Venini insieme a Jessie White Mario venne ad assistere generosamente i feriti, si occupò con devozione di tanti giovani e inoltre conobbe Enrico Albanese.
Nel 1866 l’intrepida donna seguiva il marito e l’esercito garibaldino nel Tirolo. Emilia fu per Enrico il suo presidio più saldo nelle vicende spesso dolorose della vita; compagna di idee e d’azione.
Dopo la guerra l’Albanese riprendeva la cattedra di Palermo che lasciava di quando in quando, per recarsi con la signora Emilia a soggiornare a Caprera: tra il generale e il suo medico si era instaurato un profondo e duraturo rapporto d’amicizia.
Albanese fece spesso da intermediario fra lo stesso Garibaldi ed il Re Vittorio Emanuele II, consegnando al sovrano una serie di lettere e premurandosi poi di riferire il risultato dei colloqui al Generale.
Anche tra il Re ed il patriota siciliano nacque una buona confidenza, tanto che nel 1866 durante una visita, Vittorio Emanuele arrivò a confidarsi dicendo: «Se sapeste, caro Albanese, quanto mi pesa questa livrea di Re».
Enrico Albanese era in possesso di importanti documenti, fotografie e carteggi che trasmise ai suoi eredi. Quando Garibaldi nel 1882 intuì che la sua fine era ormai imminente, chiese al figlio Menotti di mandare a chiamare Enrico Albanese. I mezzi di trasporto erano lenti e quando il medico arrivò a Caprera, il generale era già morto. Era spirato alle 8 e 50 del 2 Giugno. Il desiderio del generale di essere cremato non venne rispettato: la famiglia decise di cedere alla Ragion di Stato.
Venne sepolto sull’isola, perché i posteri lo potessero venerare. Ad Albanese spettò il compito di imbalsamare Giuseppe Garibaldi, con tannino, iniezioni di acido fenico, tenendo la salma in bagno di alcol e riempiendo di gesso l’addome. Il generale venne rivestito con la camicia rossa, per essere esposto nella camera ardente.
Dopo aver trascorso a Caprera un periodo di tempo dedicato all'elaborazione del dolore per la scomparsa dell'eroe, Albanese rientrò a Palermo Solo pochi anni dopo avrebbe seguito l’amico nella tomba.
Morì nel 1887 a Napoli, a 55 anni a causa delle conseguenze del morbo di Addison. Fu sepolto, e riposa tutt'oggi, nella cappella Albanese del cimitero di santa Maria di Gesù a Palermo, realizzata dall'architetto Francesco Paolo Palazzotto, fratello di Domenico Palazzotto, suo collega medico, e di Pietro Palazzotto, eroe garibaldino del 1860.
Fu rimpianto dopo la morte, dagli umili da lui beneficati e dagli eminenti uomini del suo tempo, fra i quali l’amico Giosuè Carducci. A Palermo gli è stata intitolata una via e oltre alla già citata statua all’Ospizio Marino, in piazza Marina è stato posto un busto che lo ritrae.
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