STORIE
Nostalgia, nostalgia canaglia: la "putìa", piccolo mondo al piano strada che sapeva di casa
Oggi non c’è quasi più contatto con le altre persone, non c’è il negoziante che ti indirizza nella scelta e ti consiglia un nuovo prodotto. Non c'è la caramella al bambino e mancano i sorrisi
Un'antica Putì a Palermo (Foto di Ezio D'Alia)
Senza chiedere a nessuno e senza farsi consigliare: basta entrare, cercare lo scaffale giusto (che sia fisico o virtuale non importa), dirigersi alla cassa, sbuffare perché c’è la fila (o perché la connessione è lenta), pagare e uscire. Il tutto in velocità e provando a non perdere minuti preziosi della propria vita.
Non c’è quasi più contatto con le altre persone, non c’è il negoziante che ti indirizza nella scelta e ti consiglia un nuovo prodotto. Non c’è il rapporto fra commerciante e cliente che solo un nicòzziu nicu (piccolo negozietto) riesce a offrire. Non c’è "la putìa".
Gli artigiani, ognuno con la propria bottega, soddisfacevano tutti i bisogni del circondario e creavano una sorta di centro commerciale di quartiere dove c’era un legame diretto e personale che permetteva di non andare altrove perché era tutto lì, a portata di mano, senza la necessità di oltrepassare il confine.
E poi, fra le varie, c’era lei: la putìa alimentare. Un piccolo mondo al piano strada dove si trovava qualsiasi cosa. Dalla pasta all’olio, dalla farina ai salumi, dai detersivi ai biscotti, il tutto veniva venduto rigorosamente sfuso, spesso in un coppo come solo in Sicilia sanno fare.
Le pareti erano piene di scaffali straboccanti, a terra erano sparsi sacchi, ceste e contenitori con merce di ogni tipo e sul banco erano poggiate una bilancia e alcune bocce di vetro contenenti caramelle, cioccolatini e altre leccornie che facevano strabuzzare gli occhi dei più piccoli con conseguente acquolina in bocca. L’odore delle sarde salate si mescolava a quello del caffè appena macinato e poi messo nella carta oleata, e non era strano assaggiare prima di comprare: anzi, era quasi un dovere.
Nessuna calcolatrice né un registratore di cassa per fare i conti. Venivano fatti a menti o sulla carta del coppo e i prodotti dati a credenza (credito) segnati in un apposito quaderno. A quei tempi, d’altronde, il rapporto con il putiaro e la putiara era di fiducia, quella vera tra persone che si conoscevano da sempre in un microcosmo, vivo, che erano i quartieri di una volta.
Era talmente forte questa fiducia che diventava comunitaria. Spesso, quindi, a fare la spesa scendevano i ragazzini o le ragazzine che, con grande timidezza, mostravano la lista scritta su un foglio dalla mamma o dalla nonna e attendevano. Il putiaro o la putiara di turno leggevano, scrivevano i prezzi, davano il resto con mille raccomandazioni del tipo «Accura cu sti piccioli, vattinni rittu a casa» («Attento, vai dritto a casa») e li aiutavano a infilare la merce nella coffa (borsa). Poi davvero dritti a casa, ma non prima di avere ricevuto una caramella, un cioccolatino o un po’ di cremalba in carta oleata.
A fine giornata i putiari si tiravano dietro la porta, salutavano qualche passante che si affrettava a tornare a cena e, tramite il portoncino accanto alla bottega, salivano nella propria abitazione: perché “casa e putìa” non era un semplice modo di dire, ma pura realtà.
Oggi questa dimensione si è un po’ persa, soprattutto in città e in alcuni quartieri. Nel fracasso della quotidianità, si è persa l’idea di comunità. Ma quanto ci manca quella famiglia allargata che conosceva i nostri gusti e ci accoglieva con sorriso e un «Buongiorno, ‘u solitu pi ‘u picciriddu?».
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