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Noi siciliani li chiamiamo i "signiali ru cielu": la vita (e le coincidenze) di Renato Guttuso

La storia della vita di uno dei grandi pittori siciliani del mondo è costellata di coincidenze che iniziano nel 1911 quando papà Jachino dipingeva poesie con i pennelli

Gianluca Tantillo
Appassionato di etnografia e storia
  • 7 settembre 2020

Renato Guttuso

Era il 1911. C’era Jachino che di lavoro faceva l’agrimensore e nel tempo perso dipingeva con gli acquarelli, anche se non era tanto bravo. Uno che faceva l’agrimensore, visto che consisteva nella misurazione planimetrica di pezzi di terreno, non doveva essere tanto contento; anzi, fra la pioggia d’inverno e il caldo d’estate, doveva essere di più il giramento strummule (trottole siciliane) che la scalora.

E per tale motivo, questo almeno è quello che avrei fatto pure io, quando la porta della sua casa di Bagheria, sita in una strada tra Villa Palagonia e Villa Valguarnera, si chiudeva, Jachino si metteva a dipingere poesie con i pennelli, che poi altro non erano che i panorami di Aspra e magari le barche dei pescatori con le facce manciate dalla salsedine.

E probabilmente stanco, dopo essersi arrotolato le maniche della camicia, salutava sua moglie Giuseppina, apriva il giornale, santiava un poco leggendo qualche notizia sulla guerra italo-turca appena scoppiata, e poi tornava a darle un baciddo affettuoso e una carezza sul pancione che ogni volta che si arricampava da lavoro gli pareva magari più grosso.
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Ah, era cavaliere Jachino: il cavaliere Gioacchino Guttuso. Forse non fu pura combinazione se in quel 1911 Kandinskij fonda il movimento Der Blaur Reiter, Picasso dà vita al cubismo sintetico, Giorgio de Chirico dipinge la serie delle Piazze delle Torri, Carlo Carrà dipinge “i funerali dell’anarchico Galli” e Marc Chagall si trasferisce a Parigi, ma tutto poteva aspettarsi, Jachino, tranne che quel picciriddo nato proprio in quell’anno, di nome Aldo, che quando lui mancava da casa gli faceva sparire tutti i pennelli, sarebbe diventato uno dei più grandi pittori d’Italia e del mondo.

Eh già, il nome completo era Aldo Renato Guttuso, prima Aldo e poi Renato; e forse non fu nemmeno combinazione che venne al mondo il 26 di dicembre, perché poteva dirsi compare di compleanno di Federico II anche se a distanza di 717 anni: quelli che gli altri chiamano casi o coincidenze, noi siciliani li abbiamo sempre chiamati signiali ru cielu.

E così, mentre Totuccio, Pippino, Nino, Ciccio (gli altri bambini), giocavano sempre con le strummule per strada, Renato dipingeva un mondo come gli piaceva lui, anche perchè quel nome poco siculo che si portava addosso di diminuitivi non ne aveva.

Appena piglia la strada di Palermo, ancora picciotto, inizia a frequentare lo studio di un certo Domenico Quattrociocchi, che detta così non dice niente a nessuno come non dice niente a nessuno la parola "trachea" associata al panino con la milza. E invece provate a mangiarvelo un pani ca meusa senza trachea, che per interci sono i calletti, e poi mi dite se non vi pare di avere in bocca ‘na brioscina cu l’omogeinezzato.

Allo stesso modo, il palermitanissimo Mimmo Quattrociocchi, che zitto zitto, due anni prima della nascita di Renato partecipa alla biennale di Venezia, forse tra un bravo e un “chi minchia fai!”, gli trasmette (e quella di non caratterizzare i volti era prerogativa del Quattrociocchi) l’importante insegnamento che i cristiani vanno e vengono ma le idee restano.

Da lì, Renato passa da bottega in bottega fino a che scoppa come una sorta di allievo dal pittore Pippo Rizzo, anche lui alla biennale, anche lui siciliano (Corleone), da cui assimila l’inconfondibile nota futurista, ma che al contrario suo, che diventerà senatore con il partito Comunista durante Berlinguer, ricopre la carica di Segretario del Sindacato fascita degli artisti siciliani.

Tutto il resto è storia, perchè nella vita, come in un quadro, quello che c’è da dire sono solo l’inizio e la fine; il processo magico e creativo che ci sta in mezzo, un po' come il concetto greco del Caos che presiste al Kosmos, esprime il suo massimo quando è vissuto a “minni futtu”.

Oggi, ogni volta che passo dalla Vucciria e mi trovo di fronte a quel bellissimo attimo, più che scorcio, che Renato è riuscito a rendere eterno nella storia dell’arte, invece di godermelo, mi giro di spalle alzando la testa verso quelle inferriate rosse mezze arruginite che, una volta, erano il ristorante preferito di Guttuso: lo "Shangai".

È proprio lì che mi piace immaginarmelo: accoffolato su una sedia in legno dalla seduta in paglia spagghiata che si fuma una sigaretta mentre aspetta una frittura di paranza e, godendosi lo spettacolo, fra sé e sé pensa: "Qualche giorno ri chisto, ci devo fare un bello quatro!".

E chi se ne fotte quanto sono grandi le tele, quali sono le techiche pittoriche o la corrente di appartenenza, come disse lui stesso in una nota intervista mentre dipinge dei peperoni: “È tutto molto semplice. Non ho composto questi peperoni in un modo particolarmente intellettualizzato, li ho visti in trattoria, me li sono portati e ho detto: domani li dipingo”.
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