STORIA E TRADIZIONI
Male che andava eri "paru paru pa pressa": i modi di dire del calcio di strada a Palermo
Giocare su un campo improvvisato, è un esempio lampante di "democrazia". Anche se alla fine c'era sempre lo sconzajuoco che diceva "ora vu tagghiu stu pallune"
Lo diceva anche il grande Stefano Benni nel suo libro "La compagnia dei celestini" e in effetti, a differenza del calcio professionale, nel calcio da strada tutti possono giocare senza esclusione.
Male che ti vada, se proprio si paru paru pa priessa, finisci in porta. Io non ero proprio un asso del pallone, ma fortunatamente la natura mi aveva dotato di una velocità nel correre decisamente superiore alla media, per cui io correvo, superavo tutti, e mi passavano la palla che io, nonostante i peri tuorti, colpivo di puntazza con tutta la forza che avevo, che se non facevo goal per bravura, lo facevo perché il portiere si scantava e si eccava i lato invece di bloccare il pallone.
Riuscimmo tutti a scappare scavalcando i muri dei iardini di mantrina, ma ci appizzammo un pallone di cuoio praticamente nuovo e per il quale dovemmo fare la colletta per ricomprarlo al legittimo proprietario.
Il campo da gioco era spesso, anzi praticamente sempre, una porzione della piazza di Santa Maria di Gesù, la quale essendo in salita ci faceva giocare in pendenza con il pallone che rotolava per i fatti suoi contro o a favore a seconda della porzione di campo che toccava.
La svolta arrivò quando, poco più in là, fecero uno sbancamento per costruire un condominio, subito bloccato per presunte irregolarità. Avevamo trovato il paradiso!
Era perfetto: terreno di brecciolino misto a terra, dove se cadevi ti escoriavi fino a 5 cm di profondità, pali e traverse fatte con i tubi Innocenti per le impalcature e messi in piedi dentro secchi di Ducotone pieni di cemento ed un enorme quantità di scagliola per poter fare a terra tutte le linee del caso.
Niè picciotti, eravamo cocci i tacca ma a noi ci pareva di essere professionisti che giocavano al Barbera! Quando arrivava l’estate ste partite duravano giornate intere, con brevi pause per abbeverarsi da un tubo da cui usciva acqua di provenienza ignota. Tornavamo a casa ricoperti di polvere che Lawrence d’Arabia al confronto era un damerino.
La presenza lì vicino di un grosso palo di illuminazione pubblica ci permetteva di giocare, a volte, anche in inverno, con la differenza che sul campo si avanzava affondando a tipo Artex, il cavallo di Atreyu ne La Storia Infinita.
Le regole le scimmiottavamo dal calcio vero, ma era consentita tutta un serie di escamotage che andavano dalla pigghiata ra maglietta da dietro, passando alla calcagnata allo stinco, per finire al cervellotico "oh talia chi c’è duoco", ovvero, ad un certo punto con aria sbalordita, come se stessero atterrando degli alieni, si gridava in direzione di chi aveva la palla, indicando un punto impreciso, urlando oh talia che c’è duoco.
A questo punto il possessore di palla si distraeva per guardare ‘nzoccu c’era duoco, e chi aveva gridato poteva rubare la palla. Quest’ultimo metodo funzionò fino a quando il funcidda, ormai chi scagghiuna belli cresciuti, rispose con un "se c’è to matri ca’…” seguita da una dettagliata descrizione di acrobazie sessuali della madre di chi aveva gridato, in compagnia di uomini ed animali. Ma a parte ste cose, si cercava di seguire delle regole prettamente calcistiche, anche se modificate a verso nostro.
Probabilmente, oggi come oggi molti dei termini che io ricordo non si usano più, cosi com’è vero che è diventato abbastanza raro vedere giocare dei bambini per strada.
Mio padre mi raccontava che anche lui, da picciriddu, giocava a calcio, ma usava delle parole diverse dalle nostre, un po' perché erano ancora "freschi" i termini che avevano portato gli americani nel dopoguerra, ed un po' perché il foot-ball veniva dalla Gran Bretagna, tant’è che la prima vera e proprio squadra di calcio palermitana nacque dall’interazione tra britannici e siciliani chiamandosi Anglo Palermitan Athletic and foot-ball club (ai tempi con il trattino), fondata il 1 novembre del 1900 e rinominata nel 1907 Palermo foot-ball club.
Quindi, per lui, e i suoi amici, durante le partite da strada non era raro sentire urlare "avutu" da usare quando il pallone andava fuori, derivante dalla parola inglese "out". Ai tempi mica c’era l’arbitro, anche perché nuddu u vulia fare dato che notoriamente, per tutti, era rigorosamente chi cuoinna tisi, per cui chi se l’accollava? Erano loro stessi ad autoregolamentarsi, senza escludere aggaddi di sorta, e a decidere di quale squadra era l’avutu.
Il fuorigioco, grande e discusso mistero del calcio, era molto a convenienza, ovvero lo si invocava solo quando era utile ad avere un vantaggio o bloccare un’azione che al 90 per cento era gol.
La parola per indicarlo era ossai, squisita storpiatura dall’inglese off-side. Se toccava la palla con le mani, oltre a correre il serio rischio di essere lampiato di prima, faceva un enzi, derivante dall’inglese hands, ma se per caso il fallo di mano era commesso dentro l’area di rigore diventava enzi panetti, dall’unione di hands, mani, e penalty, pena, in una acrobazia dialettica da applausi!
Se si doveva fare la rimessa in gioco dall’angolo, non era il corner, ma u cornutu, motivo per cui nessuna si accollava a fare la rimessa dall’angolo.
Tutto il contrario invece quando si doveva battere u frichicchio ovvero il calcio di punizione dall’idioma inglese free-kick, dove c’era la scanna per chi doveva battere. Quando per caso, uno chi peri torti, tipo me, lanciava il pallone oltre qualche muro, si urlava arruccò, ed era responsabilità dell’"arroccatore" recuperare il pallone, o nel caso in cui finiva a casa di qualche cristianeddu, pigliarsi la questione per farlo desistere dalla minaccia “ora vu tagghiu stu pallune”.
Prima di ogni partita c’era a spaiuta, ovvero il momento in cui i due capitani, ovvero quelli che erano più bravi a giocare, facevano la conta urlando “i mia i mia i miaaa!” buttando poi un numero con le dita con la cui somma si faceva la conta.
Chi usciva poteva cominciare a scegliere il primo giocatore, e poi a turno in modo alternato tutti gli altri, fino a quando, inevitabilmente, rimaneva l’ultimo che era il più scarso di tutti, ma che, in ogni caso, giocava lo stesso , perché il calcio da strada, come ho detto all’inizio, è uno dei giochi più democratici del mondo.
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