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Una vita dedita alla sconfitta della mano nera

  • 11 luglio 2005

Con “Joe Petrosino” (Flaccovio Editore, pp. 145, euro 8) Massimo Di Martino, giornalista professionista, ha voluto rendere onore a questa figura di detective della polizia americana. Più precisamente il libro racconta il fervore che permeava la città di “Nuova York”, giovane metropoli che accoglieva continui arrivi di neoemigrati sbarcati dal vecchio mondo in cerca di fortuna. E′ in questo scenario che Giuseppe Petrosino, per gli amici Joe, muove i suoi primi passi: da lustrascarpe agli angoli delle strade diventa “Ussaro Bianco” (vecchio nome con cui venivano indicati gli spazzini del dipartimento di polizia newyorkese), sino ad arrivare ad indossare la divisa di poliziotto. Tra verità e mito, si narrano episodi di attentati sventati e arresti rocamboleschi che, come nella migliore tradizione yankee, danno l’idea dell’eroe italoamericano, che potrebbe essere il vicino straniero della porta accanto, «uomo tutto d’un pezzo» ma anche «dotato di una straordinaria umanità specialmente per le classi meno fortunate». L’autore ha voluto ricostruire il più fedelmente possibile i fatti che si svolgevano tra otto e novecento, periodo che vide un’ondata migratoria tricolore malavitosa che, secondo le fonti, andò ad inficiare l’apparente equilibrio della comunità “little Italy” della grande mela. Questa la missione di Joe Petrosino: contrastare con determinazione le crescenti organizzazioni criminali.

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Sfruttando la conoscenza dell’italiano ed entrando in contatto con gli ambienti “made in Sicily”, Joe comunica con lo stesso Roosevelt il movimento tra l’isola e il continente, tentando la rischiosa interpretazione della logica di Cosa Nostra, tanto rischiosa che gli risulterà fatale. Sarà proprio il presidente statunitense infatti a volerlo in Sicilia per giocare in casa la partita con la mafia, persa poco dopo il calcio d’inizio, con l’obiettivo di creare una prima rete di intelligence. L’Italia e Palermo al tenente non piacquero proprio, come scrisse alla moglie; la città era alla vigilia delle elezioni politiche ed i manifesti sui muri sponsorizzavano «gli amici degli amici degli amici» di un popolo che allora, come oggi, « avrebbe potuto garantire i diritti di ogni siciliano spacciandoli per favori e privilegi». La pioggia a catinelle accompagnò i quattro colpi di pistola che nel 1909 fecero secco il detective matricola 285 Giuseppe Michele Pasquale Petrosino, in missione segreta che poi tanto segreta non sembrava essere stata, proprio come nei migliori film gangster: la pioggia, la cena, la passeggiata con i presunti amici, bang.

Se la prima parte si snoda fra il racconto delle avventurose vicissitudini del poliziotto ed il resoconto giornalistico, la seconda pare più un saggio, in cui apprendiamo della sentenza della corte d’appello di Palermo (1911) nei confronti dei suoi presunti assassini, e fruiamo di un’accurata sezione di fotografie del protagonista e della casa museo a lui intitolata. Della vicenda dell’uomo in divisa che lotta la mafia se ne continua a parlare ormai da quasi cento anni; se la targa – da qualche anno rimessa a nuovo – di Piazza Marina la riporta forse alla mente di pochi ed incuriosisce (si spera) quella di molti, la fiction, l’Associazione Internazionale, il Premio, le canzoni dei cantastorie e chissà quant’altro a lui dedicati, accompagnano il mito creatosi intorno a questa figura d’uomo semplice ma deciso. La storia di Palermo è anche questa: targhe e lapidi di morti ammazzati. La storia di Palermo sembra ripetersi, e quella di Petrosino è tristemente attuale, in un’isola apparentemente felice in cui alcuni hanno cominciato a sorridere cercando di far passare per buono il messaggio che la mafia non esiste. Guardando le foto in bianco e nero del funerale del poliziotto, vengono in mente quasi con naturalezza quelle di Impastato, sino ad arrivare ad i colori tristi della bara di Falcone e Borsellino e così via, uomini che hanno battuto strade diverse seguendo obiettivi analoghi. La conclusione a tutto ciò è che una conclusione forse non ci sarà, e viene in mente solo una parola: “resistere”.

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