LIBRI
Una storia di storie per uno psichiatra di frontiera
Una storia di storie quella che Lorenzo Messina, psichiatra di frontiera – come ama definirsi –, trasmette ai lettori con il suo “Non mi hanno fatto salvare Borsellino” (ed. Libridine, pp. 157 – 10 euro). Una testimonianza genuina, una minutissima goccia nell’oceano del disagio causato dai tanti episodi di mala sanità, a ben guardare le cronache locali. A distanza di anni dalle conquiste del ’78 – la legge 180 “azzera manicomi” – il lavoro psichiatrico ha subito un’accelerazione, una metamorfosi verso la dignità dell’essere, confermata, come intende fare l’autore, dalla plasticità di una professione che si ottimizza al caso specifico volta dopo volta. Cosicché non si stupisca il lettore – nello scorrere le pagine – delle scelte compiute dall’autore: il linguaggio parlato che risparmia al lettore terminologie dotte, cedendo invece campo ad una quotidiana semplicità, quale prospettiva di lettura dei racconti; tutto il testo è attraversato da trauma, dolore, fobia, perdita improvvisa, assenza d’amore, solitudine estrema che popolano la vita dei “casi”. Il paziente, però, non è solo un caso clinico, ma soprattutto un caso umano; un essere fatto di sentimenti e storie quasi mai dimenticate. Sul filo di queste emozioni viaggia una “umana” sanità. Lorenzo Messina, dirigente del reparto psichiatrico dell’ospedale mazarese Abele Ajello, attraversa l’arco temporale compreso dal 1982 ad oggi, dalle pratiche iniziali a Pesaro fino al rientro in Sicilia. E per il lettore è difficile distinguere tra il medico, che parla dalla frontiera, e l’uomo, emozionato dal suo simile. Attraverso ogni singolo protagonista, nelle sedici storie che scuotono nel profondo, si costituisce l’esemplare opportunità d’improntare il proprio lavoro ai sentimenti umani, a quelle esperienze “mai dimenticate”, pronte ad esplodere nell’intimo, che fanno di ciascuno un unicum, anche di fronte alle estreme conseguenze di un gesto o di una parola apparentemente senza un’origine.
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Una storia di storie, pertanto, un racconto che racconta e s’apprezza per il suo essenziale, per le storie in presa diretta, per la peculiarità propria del “cuntu” di antica memoria che rafforza la trasmissione della testimonianza. In questo piccolo album tutte le storie sono intercalate dai caffè – preludio alla disponibilità di dialogo –, non c’è successione cronologica, né un filo conduttore di casi prospettati, ma nei vari momenti prescelti si costruisce la “storia di storie” dove la storia del medico trova quasi genesi e si forma attraverso la storia di ogni paziente. Uno scrivere, quindi, che sintetizza, senza annoiare, le difficoltà di una specializzazione, che dalle nostre parti deve ancora fare i conti spesso con la superstizione, la diffidenza, l’ignoranza, il luogo comune e le consegne del “mondo dei normali”. La delicata mediazione psichiatrica, l’interazione medico-paziente, la faticosa apertura – quasi mai immediata – delle porte della fiducia, l’amicizia, costruiscono la strada del recupero e offrono al lettore un’ occasione per riflettere. L’autore, uomo prima d’essere medico, testimonia la propria “emozione” e la trasmette, perché è anche attraverso le emozioni, a quell’attingere all’altrui umanità, che si riconosce il proprio animo e la direzione dei nostri passi. Oggi, nonostante le conquiste, l’indifferenza e la diffidenza sono ancora troppe. Ben vengano, quindi, tutte le storie raccontate, quella di Antonio, Alessandra, Rosario, Rita, Carmelo, Francesco, Elisa, Rosa e delle altre, tutti nomi di finzione, ma con tanta verità alle spalle; come quella di Giacomina – una vecchietta alla finestra – in attesa del marito in guerra partito più di mezzo secolo prima, che come tanta umanità è cosciente che la realtà porta l’amore lontano, ma lascia ancora uno spiraglio di luce – quella finestra aperta – da cui sognare il ritorno.
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