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Tre sorelle sull'orlo dell’abisso

  • 16 giugno 2006

' L’ENFER
Francia, Belgio, Giappone, Italia, 2005
Di: Danis Tanovic
Con Emmanuelle Béart, Karin Viard, Marie Gillain, Jacques Gamblin, Jacques Perrin, Guillaume Canet, Carole Bouquet, Miki Manojlovic, Jean Rochefort

Tre sorelle perdute nell’inferno dei sentimenti estremi in un mondo che appare dominato dalla clamorosa assenza di Dio, ovvero quanto di più infernale la mente umana possa immaginare. Sophie (Emmanuelle Béart), Céline (Karin Viard) e Anne (Marie Gillain) sono le protagoniste il cui destino appare segnato da un trauma infantile che le ha separate, spingendo ognuna di loro a vivere una isolata condizione d’infelicità. Luogo deputato di quest’ultima è naturalmente il nucleo familiare.

Sophie non riesce a rassegnarsi al tradimento del marito, il fotografo Pierre (Jacques Gamblin), arrivando a trascurare i due figli per pedinarlo, persino in un hotel; Céline, l’unica a non dichiarare tormenti amorosi, è prigioniera di una solitudine coatta, legata alla figura di una madre inferma (ricoverata in una casa di cura) a cui presta l’incantevole volto, invecchiato dal trucco, Carole Bouquet; Anne, studentessa di architettura è invece perdutamente innamorata di un anziano professore maritato, Frédéric (Jacques Perrin), che è peraltro il padre della sua migliore amica.

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In questa sorta di girone infernale, dove si agitano anime tormentate, l’elegante e un po’ rarefatto sguardo del regista bosniaco Danis Tanovic segue soprattutto le protagoniste inscrivendole nei freddi ambienti di abitazioni provate e di hotel le cui proporzioni sembrano via via adattarsi agli afflati e ai mancamenti dei personaggi per una storia dove sono le donne ad agire, mentre gli uomini sembrano subire passivamente le conseguenze delle passioni. Sorprende, come sempre, la bellezza e la bravura di Emmanuelle Béart (qualsiasi polemica sulle sue labbra siliconate è da respingere al mittente) precipitata in un nuovo inferno quotidiano che segue quello di Chabrol risalente a qualche anno fa: questa volta non è più oggetto di desiderio e di gelosia, ma una donna a tutto tondo sofferente per un amore ossessivo trasformato in paura, a causa del tradimento del partner.

Il film nasce da un progetto rimasto incompiuto di Krzysztof Kieślowski ispirato al sommo Dante e alla tre cantiche della “Commedia”, ognuna delle quali, dopo la morte del grande autore e per sua volontà, è stata affidata ad altrettanti registi europei (“Heaven”, diretto dal tedesco Tom Tykwer, ha già abbastanza deluso). La sceneggiatura di questo “L’Enfer” è di un altro Krzysztof, il fedele Piesiewicz, in collaborazione con Agnieska Lipiec Wroblewska. Il regista Tanovic è reduce da un sorprendente esordio che gli fruttò l’Oscar come miglior film straniero, “No Man’s land”, e dalla partecipazione al progetto collettivo di “11 settembre 2001”.

I temi cari all’autore del “Decalogo” e di altri memorabili capolavori in questa opera seconda ci sono tutti: ci sono i giochi del destino, che qui pare incarnato nella figura del professore, c’è persino l’ape che cerca di uscire da un bicchiere come in “Non nominare il nome di Dio invano” e che quando vi riesce segna simbolicamente la possibile rinascita morale delle tre anime in pena. E soprattutto ci sono il tema dell’elaborazione dell’infelicità, del vuoto che nelle azioni umane provoca il distacco della dimensione religiosa (emblematica la scena dove la Béart trova chiusa la porta della Chiesa) in un film dove sembra non esserci più spazio per l’espressione piena dei sentimenti, un universo privo di respiro dove si nasce e si muore sempre più inconsciamente come il piccolo cuculo che cade dal nido duranti i titoli di testa.

Ma nonostante questi rimandi, il paragone col Maestro non regge: qualcosa in questo film sembra non funzionare, ed è come al solito una questione d’intensità. Se Kieślowski era implacabilmente analitico, Tanovic è aridamente didascalico: il suo racconto d’incomunicabilità non possiede le giuste sfumature, i primi piani risultano imprecisi e, nonostante l’avvincente montaggio di Francesca Calvelli, la materia non lievita e alla fine si rimane indifferenti di fronte alla tribolazione dei personaggi. Le emozioni, in questo film, rimangono inespresse, come prigioniere di quei segreti familiari che intuiamo essere la fonte d’angoscia dei giorni delle tre sorelle. Né è sufficiente al coinvolgimento la bella colonna sonora di Dusko Segvic.

Certi eccessi drammaturgici, l’enfasi con cui viene mostrata la deriva tragica della madre neo-Medea, risultano stridenti e conducono lo spettatore verso una zona melodramma che tende rischiosamente alla serie B. Per girare un dramma borghese con i giusti toni epici occorre una straordinaria grazia. Per usare gli artifici narrativi del flashback (qui utile ad evocare l’infanzia difficile delle protagoniste) e i colpi di scena che richiamano una dimensione simbolica e metafisica (il movimento crudele di Madre Natura, altra immagine dominante della poetica di Kieślowski) occorrono un ascolto e un gusto superiori. Insomma, come anche certe prove post-bergmaniane ci dimostrano, non basta seguire la via maestra scritta dal Grande Autore per ripetere il Suo miracolo. Anche per Tanovic non sono bastate le buone intenzioni.

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