CINEMA E TV
Quei sogni infranti impossibili da riparare
La stella che non c’è
Italia, 2006
di Gianni Amelio
con Sergio Castellitto, Tai Ling
Anni Cinquanta: Giovanni e Pietro, due fratelli meridionali, patiscono a Torino il calvario dello sfruttamento e della discriminazione. Anni Novanta: due spregiudicati trafficoni comprano un calzaturificio in Albania, illudendosi di poter lucrare su un popolo distrutto dalla guerra e da decenni di regime dittatoriale. 2006: Vincenzo Buonavolontà (nome programmatico), ex supervisore di un altoforno napoletano venduto ai cinesi, si getta in un’odissea marcopoliana per consegnare ai nuovi proprietari della fabbrica un congegno meccanico che egli stesso ha provveduto a riparare.
Il cinema di Gianni Amelio, da “Così ridevano” a “Lamerica”, fino a quest’ultimo “La stella che non c’è”, in concorso alla 63esima Mostra di Venezia, ripercorre le vicissitudini del passato e del presente collettivo, attraversa i corto-circuiti e i ricicli della storia, parla di noi e del mondo che ci circonda, mette in scena con cinica disillusione la perdita delle speranze, dell’innocenza, a volte perfino dell’umanità. Percorsi geograficamente e temporalmente molto distanti tra loro, ma comunque tutti accomunati dalla dimensione del "viaggio" (così anche il bellissimo road movie “Il ladro di bambini”), inteso come incessante stato di transizione fisica e spirituale che accompagna personaggi dall’identità smarrita.
Durante questo percorso di formazione dovrà scontrarsi con una realtà poverissima e contraddittoria, tra il formicaio infernale di Shangai e la desolazione del villaggio di Yinchuan. Un mondo dove i valori rivoluzionari si sono persi come la stella mancante della bandiera cinese e l’ideologia è solo quella vuota e asfittica delle gigantesche statue di Mao Tse Tung. C’è una salvezza? Il finale è ambiguo e sembra instillare una goccia di speranza nel bel rapporto sincero e intenso che si instaura tra il protagonista e Liu Hua, traduttrice cinese interpretata con efficacia dall’esordiente Tai Ling.
Molto meno riuscito dei capolavori precedenti – perché si eleva troppo sui terreni del simbolo e della riflessione teorica e si dimentica troppo spesso di scendere al livello delle passioni e della carne – “La stella che non c’è” è vittima del suo stesso involucro grottesco e surreale e non riesce ad appassionare fino in fondo. Forse perché il disagio di Buonavolontà è sin troppo razionale e professionale, circoscritto nell’ambito esistenziale e psicologico, laddove i protagonisti di “Lamerica” e “Così ridevano” pativano una sofferenza più materiale e “totale”. Rimane comunque cinema preciso e rigoroso, capace di dribblare sentimentalismi e di fare sana denuncia senza retorica.
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