CINEMA E TV
Provenzano, "primula" inafferrabile: nelle sale un film di inchiesta
Diecimila anime e un fantasma. Non è la popolazione di una qualche cittadina inglese anche se in Inghilterra, si sa, i fantasmi sono assai considerati. Stiamo parlando invece degli abitanti di Corleone e il fantasma in questione è quello del superlatitante Bernando Provenzano, sparito da 43 anni, ultimo esponente ancora a piede libero del cosiddetto clan dei corleonesi, insieme con Luciano Liggio e Totò Riina, questi altri due componenti già in carcere. “Il fantasma di Corleone” è anche il titolo di un interessante film-documentario su questo personaggio, intensa e partecipata inchiesta di Marco Amenta, regista palermitano classe 1970, presentato in anteprima per la stampa a Palermo e di prossima uscita in tutte le sale nazionali, film già selezionato a svariati Festival Internazionali e insignito di una menzione speciale della giuria al Mediterraneo Festival. Questa del boss superlatitante, pur nei suoi risvolti drammatici, è una vicenda che affascina, uno dei tanti misteri che l’assolata terra di Sicilia custodisce nelle sue tinte forti e nei suoi paesaggi cruenti, e il cineasta bene comunica l’ammaliamento dal quale si rimane conturbati.
E allora è una grande verità quella che viene fuori e cioè che se la mafia ancora esiste, se questa nuova genia di mafiosi, «cattivi di pura cattiveria e senza quel senso dell’onore di un tempo che vietava loro di uccidere donne e bambini, mafiosi eppure convinti di operare nel bene, il loro bene si intende con un assoluto vuoto morale nei confronti del prossimo», così li definisce Giuseppe Linares, il capo della squadra mobile di Trapani abile nel catturare latitanti, se questa mafia continua a esistere, dicevamo, è perché è lo Stato che permette che ciò accada. E questo è dichiarato a grandi lettere nel film di Amenta, e non è la prima volta che sentiamo affermare questa tesi, con la quale chi scrive concorda pienamente. A questo proposito, un’intervista ci rammenta un episodio curioso: il regista incontra il colonnello dei carabinieri Riccio, l’unico che fu veramente sul punto di prendere Provenzano, grazie alle dichiarazioni di un pentito suo collaboratore poi ucciso, Ilardo, e che non potè catturare il boss perché ostacolato dal suo superiore, il generale Mario Mori, capo dei servizi segreti, il quale riteneva che non vi fossero i mezzi necessari per potere portare l’operazione a compimento (!). Piccolo inciso: Mori è lo stesso al quale si deve la cattura di Totò Riina, ma anche la mancata perquisizione del luogo dove venne preso. Un fatto per il quale venne accusato di favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra assieme al capitano (ora colonnello) Sergio De Caprio, detto "Ultimo", ma dal quale entrambi sono stati assolti dal Tribunale di Palermo "perché il fatto non costituisce reato", mancando, secondo il giudice, l'elemento psicologico per il quale la mancata perquisizione avrebbe inteso favorire la mafia.
Per tutto il film è il regista che racconta in prima persona delle sue ricerche, e le sue curiosità, dubbi e inquietudini, diventano, anzi sono, le nostre e quei luoghi, reali e della mente, ci appartengono. E se è vero che la segregazione del latitante tanto ha in comune con la vita privata continuamente minacciata e lesa nella propria libertà di essere vissuta da parte di questi uomini coraggiosi e generosi, Linares e come lui Falcone e Borsellino e tanti altri ancora, è pur vero che anche noi siciliani soffriamo di una libertà perduta: quella di poter vedere un giorno la nostra terra di sole crescere senza questo male di antica memoria, un male che induce a delegare invece che ad agire, a rimanere isolati piuttosto che riunirsi in gruppo, insomma a vivere secondo paura e senza dignità. Una curiosità, alquanto sinistra: il bravo regista inizia il suo lavoro dicendoci che Provenzano nacque lo stesso giorno, anzi la stessa notte, il 31 gennaio 1933, in cui Hitler prese il potere.
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Ma c’è molto di più. Accanto alla precisa ricostruzione dei tanti fatti di sangue (circa cinquemila morti) che determinarono l’ascesa al potere dei Corleonesi, spicca il ritratto di due figure, l’inseguito e l’inseguitore: da una parte il fantomatico personaggio, ora ombra cupa, ora solitaria figura in uno spoglio rifugio, unica nota di colore le arance ricevute dalla moglie lontana; e poi l’inseguitore, l’investigatore soprannominato “il cacciatore”, con tutta la squadra che lavora con lui. Interessante e coinvolgente sentire le modalità, le logiche secondo le quali si procede per catturare un latitante: l’analisi sociale che precede all’azione vera e propria, lo studio di quella tipologia di persone, i loro gusti, le loro abitudini, insomma tutto l’humus all’interno del quale il latitante diventa icona di riferimento, quasi entità religiosa. Ed accanto all’organizzazione efficiente di una squadra di uomini affiatati, è incredibile pensare che si contrapponga un sistema di comunicazione basato su pizzini, bigliettini di carta passati brevi manu che riportano i messaggi da comunicare segretamente. E allora è una grande verità quella che viene fuori e cioè che se la mafia ancora esiste, se questa nuova genia di mafiosi, «cattivi di pura cattiveria e senza quel senso dell’onore di un tempo che vietava loro di uccidere donne e bambini, mafiosi eppure convinti di operare nel bene, il loro bene si intende con un assoluto vuoto morale nei confronti del prossimo», così li definisce Giuseppe Linares, il capo della squadra mobile di Trapani abile nel catturare latitanti, se questa mafia continua a esistere, dicevamo, è perché è lo Stato che permette che ciò accada. E questo è dichiarato a grandi lettere nel film di Amenta, e non è la prima volta che sentiamo affermare questa tesi, con la quale chi scrive concorda pienamente. A questo proposito, un’intervista ci rammenta un episodio curioso: il regista incontra il colonnello dei carabinieri Riccio, l’unico che fu veramente sul punto di prendere Provenzano, grazie alle dichiarazioni di un pentito suo collaboratore poi ucciso, Ilardo, e che non potè catturare il boss perché ostacolato dal suo superiore, il generale Mario Mori, capo dei servizi segreti, il quale riteneva che non vi fossero i mezzi necessari per potere portare l’operazione a compimento (!). Piccolo inciso: Mori è lo stesso al quale si deve la cattura di Totò Riina, ma anche la mancata perquisizione del luogo dove venne preso. Un fatto per il quale venne accusato di favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra assieme al capitano (ora colonnello) Sergio De Caprio, detto "Ultimo", ma dal quale entrambi sono stati assolti dal Tribunale di Palermo "perché il fatto non costituisce reato", mancando, secondo il giudice, l'elemento psicologico per il quale la mancata perquisizione avrebbe inteso favorire la mafia.
Per tutto il film è il regista che racconta in prima persona delle sue ricerche, e le sue curiosità, dubbi e inquietudini, diventano, anzi sono, le nostre e quei luoghi, reali e della mente, ci appartengono. E se è vero che la segregazione del latitante tanto ha in comune con la vita privata continuamente minacciata e lesa nella propria libertà di essere vissuta da parte di questi uomini coraggiosi e generosi, Linares e come lui Falcone e Borsellino e tanti altri ancora, è pur vero che anche noi siciliani soffriamo di una libertà perduta: quella di poter vedere un giorno la nostra terra di sole crescere senza questo male di antica memoria, un male che induce a delegare invece che ad agire, a rimanere isolati piuttosto che riunirsi in gruppo, insomma a vivere secondo paura e senza dignità. Una curiosità, alquanto sinistra: il bravo regista inizia il suo lavoro dicendoci che Provenzano nacque lo stesso giorno, anzi la stessa notte, il 31 gennaio 1933, in cui Hitler prese il potere.
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