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Nel fango del talento: in un film il mito di Johnny Cash

  • 8 marzo 2006

Quando l'amore brucia l'anima (Walk the line)
U.S.A., 2005
Di: James Mangold
Con: Joaquin Phoenix, Reese Witherspoon, Ginnifer Goodwin, Robert Patrick, Dallas Roberts, Dan John Miller

Il biopic è ormai un vero e proprio genere cinematografico consacrato ma che raramente offre perle preziose. L’anno scorso c’è stato l’ottimo “Ray” di Hackford che ha consacrato l’attore Jamie Foxx, nel ruolo di Ray Charles, portandolo all’Oscar. Ed ora ecco la biografia di un altro esponente della leggenda musicale americana, votata al connubio genio e sregolatezza: Johnny Cash, voce del country duro e puro. L’occasione è ghiotta, buona a rievocare quel che resta del sogno americano. Siamo nel territorio del Mississippi degli anni trenta, della contadina terra del gospel, lo scenario mirabilmente raccontato da scrittori come John Steinback e che il cinema ha fin troppe volte usato come location ispiratrice dai bei tempi di John Ford. Sono queste le radici del grande Cash. Era il 1968 quando il mitico Johnny registrò dal vivo nella prigione di Folsom un album destinato ad entrare nella storia della musica insidiando notevolmente l’apoteosi dei Beatles in quell’anno. A partire da questo episodio prende le mosse il film di James Mangold “Quando l’amore brucia l’anima” (titolo originale “Walk the line” preso di peso da uno dei più grandi successi discografici di Cash). La voce di quel mostro sacro veniva da lontano, da una radicata tradizione che aveva bisogno di un grande talento per affermarsi. Rielaborando atmosfere e temi del gospel, negli anni cinquanta Cash divenne un virtuoso del country e del rock’n’roll. La sua biografia è l’occasione per recuperare figure come Elvis Presley, Jerry Lee Lewis, Waylon Jennings e Roy Orbison che fanno da cornice alla inquieta vita del musicista. Ed in più, il film racconta una delle più grandi e tormentate storie d’amore vissute dal nostro, quella che l’ha legato a June Carter.

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Un altro capitolo importante, utile a comprendere i travagli di Cash è quello relativo alla tragica morte del fratellino maggiore vittima dell’inumano lavoro in una segheria, quando lo stesso Johnny adolescente era succube di un padre-padrone che gli impediva di coltivare la sua musicale passione. Apprendiamo pure la ragione di quel soprannome, l’uomo in nero, dovuto alla scelta forzata di un’unica camicia rimasta, per l'appunto nera, che diventò la sua divisa, imponendo un look. Non mancano i riferimenti alla periodo della depressione, quando pillole di anfetamina mescolate all’alcol costrinsero Cash ad un momentaneo ritiro dalla scena, poi riscattato da una clamorosa risalita. Un biopic sul filo dell’emozione pura, quella di Mangold che dirige con passione e sapienza questa discesa agli inferi di una stagione musicale irripetibile. Assai evocative e ben girate sono le sequenze dei concerti “live”, quando la musica si faceva teatro puro, senza effetti tecnologici, quando la cultura americana andava in sintonia con la Storia. Prodigiosa risulta l’interpretazione di Joaquin Phoenix nella parte del protagonista, un miracolo di identificazione, lavorato nei minimi particolari, uno stanislavskiano recupero dei modi stilistici del grande musicista, mimesi perfetta del suo stile. E nel ruolo di June Carter c’è Reese Witherspoon, arrivata alla sua migliore prova d’attrice nel corso di una fulminante carriera.

E’ raro che un biopic si attardi a descrivere, senza cadere nella semplificazione psicologistica, le motivazioni più profonde che legano il personaggio prescelto agli umori della propria epoca. Questo film riesce nell’impresa, inquadrando l’emblematica parabola di Cash all’interno del crogiolo di un’era, l’America i cui antichi valori (patria e famiglia innanzi tutto) sembrano crollare a favore di una tormentata new age. Seguiamo così le metaforiche vicissitudini alla “New York, New York” della coppia Cash- Carter che provoca la crisi matrimoniale del cantante,pressato dal risentimento della moglie Vivian (Ginnifer Goodwin), pur assai paziente nel sopportare la sregolatezza del consorte. Vita e arte, un binomio quasi mai equilibrato: restare in sintonia con la propria ispirazione, in nome di una utopia superiore, è davvero difficile (ma questa non potrebbe essere una metafora buona a descrivere l’impervio percorso dell’America intera che oggi sembra aver rinunciato ai suoi sogni?). In un film come “Quando l’amore brucia l’anima” è la musica a farla da padrone: ci piace segnalare la prestigiosa produzione di T-Bone Burnett, peraltro autore della colonna originale e marchio di garanzia d’importanti realizzazioni cinematografiche come “Fratello, dove sei?” e “Ritorno a Cold Mountain”. Se in un film come questo il retrogusto è forte, allora possiamo goderci senza pentimenti l’ebbrezza musicale delle perfomance di Johnny e June, mirabilmente interpretate dai protagonisti. Rimane il sottile rimpianto per quell’era di splendidi, vitalissimi dinosauri, per quella ispirazione straordinariamente creativa, per quell’anticonformismo capace davvero di rovesciare prospettive ed aprire vie nuove, per quel rotolarsi nel fango del talento, in nome della musica vera, quella che interpreta i moti più segreti dell’evoluzione sociale e culturale. Un film come questo è utile a non trasformare una coppia come Johnny Cash e June Carter (entrambi deceduti nel 2003) in statue di cera all’interno di un virtuale museo retrò. Poiché, ci insegna Mangold, essi vivono mentre le loro ceneri continuano a bruciare.

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