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"Memorie di una geisha", vite lontane, così vicine

  • 28 dicembre 2005

Memorie di una geisha (Memoirs of a geisha)
U.S.A., 2005
Di Rob Marshall
Con Zhang Ziyi, Ken Watanabe, Michelle Yeoh, Gong Li, Koji Yakusho, Suzuka Ohgo, Kaori Momoi, Cary-Hiroyuki Tagawa, Zoe Weizenbaum, Youki Kudoh

Una bambina si dispera su un ponte quando un uomo dall’aspetto generoso si avvicina con dolcezza offrendole poi un cono col ghiaccio dolce. La piccola allora accenna ad un leggero sorriso che le illumina gli occhi limpidi: è questo uno dei tanti momenti toccanti del film “Memorie di una geisha”. La bimba è infatti Chiyo (interpretata da Suzuka Ohgo), colei che diventerà l'illustre geisha, e scopriamo presto che l’uomo è il Direttore Generale (Ken Watanabe), un affarista che entra sin dalla tenera età nel cuore della protagonista. Il loro è un amore impossibile che accompagnerà la fanciulla nel corso della sua tormentata vita e solamente il ricordo di quel delicato momento le darà la forza per sopportare ogni cosa. Il teatro di questo racconto d’infanzia negata è Kyoto. Siamo nel 1929 e la piccola già all’età di nove anni viene venduta come serva dalla sua famiglia ad una geisha che le fa da madre (l’attrice che la impersona è la straordinaria Kaori Momoi che ha lavorato a fianco di registi come Kurosawa e Imamura, vista recentemente in “Il sole” di Sokurov). Quando i parenti muoiono, Chiyo è costretta a subire le umiliazioni della perfida geisha Hatsumomo (una splendida Gong Li) la quale, peraltro, si concede in segreto ad un uomo. Presto impariamo che l’elemento protagonista di questo film è l’acqua: l’acqua capace di generare la pioggia e spegnere il fuoco, l’acqua che si riflette nello sguardo ideale, quella grazia necessaria ad una vera geisha. Ed è la più veterana e rinomata tra le geisha, Mameha (Michelle Yeoh), a pagare i debiti di Chiyo che, nel frattempo, è cresciuta e ha assunto i lineamenti della bellissima Zhang Ziyi.

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Nel giro di sei mesi Chiyo diventa prima una maiko (ovvero un’apprendista) per poi divenire finalmente una geisha di nome Sayuri in grado di sedurre gli uomini più ricchi e potenti del villaggio di Kyoto. La sua vita è costellata di incontri fatali come quello col Barone (Cary-Hiroyuki Tagawa), e con Nobu, un altro uomo d’affari dal volto sfigurato che cerca di diventare il nuovo protettore della geisha (l’attore è Koij Yakusho diventato famoso in Giappone per la versione originale di “Shall we dance?”, nel ruolo che nel remake è di Richard Gere). Lo scoppio della seconda guerra mondiale porta altri cambiamenti nella vita di Sayuri, costretta prima a separarsi, per colpa di Hatsumomo, dall’amica d’infanzia Zucca (da piccola è Zoe Weizenbaum e da grande è Youki Kudoh) conosciuta a casa della geisha, per poi rincontrarla a conflitto finito. La forza della bellezza è uno dei temi dominanti di questo bel film di Rob Marshall prodotto da Steven Spielberg. Forse più che di bellezza, bisognerebbe parlare di fascino, dote di speciale sensualità e misura, indispensabile per essere una geisha ovvero una donna allo stato puro, che deve sapere trasmettere con lo sguardo e la danza i suoi sentimenti, mai completamente svelati. Da questa misura di mistero ed incompiutezza si sviluppa il melodramma, in questo caso elaborato con grazia dallo sceneggiatore Robin Swicord che lo ha tratto dall’omonimo romanzo di Arthur Golden scritto pensando alla figura di una geisha degli anni Sessanta e Settanta, Mineko Iwasaki. Con questa pellicola realizzata negli studi di Culver City in California (il villaggio è ricostruito in un ranch vicino Los Angeles), Rob Marshall torna alla regia dopo il grande successo di “Chicago”.

La sua esperienza teatrale lo ha condotto a reinventare con scrupolo gli ambienti e ad affidarsi alle suggestive coreografie del suo abituale collaboratore John DeLuca. Il bel montaggio è affidato a Pietro Scalia e l’ammaliante colonna sonora originale a John Williams, che sfrutta con dovizia un impasto orchestrale a cui si aggiungono strumenti tradizionali giapponesi, con la preziosa collaborazione di Yo-Yo Ma al violoncello e di Itzhak Perlman al violino. Le star di questo film sono cinesi: e oltre a Zhang Ziyi e Gong Li c’è la malese Michelle Yeoh. Al di là degli scrupoli filologici relativi ad un film d’ambientazione giapponese, quello che conta è che lo spettacolo funziona con la fluidità necessaria. E’ impossibile non cogliere i richiami più diretti ai film di Zhang Yimou e di Chen Kaige, “Lanterne rosse” e “Addio mio concubina”, ma il film sa sfruttare con originalità lo spunto classico del racconto, con al centro uno straordinario numero di danza di Sayuri, modellato sull’arte del teatro Kabuki. Memore delle indimenticabili produzioni hollywoodiane di una volta, il film di Marshall è una storia universale con tutti gli ingredienti lievitati al punto giusto. Del resto, il racconto di una vita in forma di saga è di per sé una retorica seducente. Non è difficile identificarsi nella parabola di questa donna che affronta le asprezze di una lotta per la sopravvivenza, che subisce le proprie metamorfosi attraverso la disciplina, che è costretta ad affrontare un amore impossibile e l’implacabilità del Tempo. Una donna che, sul finale (in voce "off") dice, di non essere né imperatrice né regina ma solo una geisha che incarna un destino comune di perdizione, così lontano e così vicino.

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