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"Me and you and everyone we know", le parole sono scarpe

  • 12 dicembre 2005

Me and you and everyone we know
USA, 2005
Di Miranda July
Con John Hawkes, Miranda July, Miles Thompson, Brandon Ratcliff, Carlie Westerman

Probabilmente il nome di Miranda July non vi dice molto, ma è certo, però, che ne sentirete parlare in occasione dell’uscita della sua opera prima, “Me and you and everyone we know”. La July è una giovane autrice a tutto tondo: ha scritto, diretto ed interpretato il suo film che è stato presentato al Sundance Festival all’inizio dell’anno dove ha ricevuto il premio della giuria. Si tratta, dunque, di un felice debutto approdato in seguito, fino all’edizione di Cannes di quest’anno, nella sezione “Semaine de la critique”, dove il film si è portato a casa la “Camera d’Or” riservata alle opere esordienti. Come inizio non c’è male, sono premi meritati: nella pellicola della July si respira felicemente un’aria da cinema indipendente che piace molto alla critica e al pubblico del Sundance. La sua opera prima ha una freschezza encomiabile e la sua fortuna sembra destinata a continuare, magari con qualche statuetta alla prossima edizione degli Oscar. La July è un’artista multimediale, le cui perfomance hanno avuto un certo successo nei musei d’arte moderna, e il ruolo che si è cucita addosso nel suo film è quello di Christine Jesperson, un’artista alla ricerca di un espositore che, per guadagnare, fa l’autista a bordo di un taxi color arancione. Realtà e fantasia si mescolano nella vita di Christine molto facilmente, finché un bel giorno irrompe Richard Swersey (John Hawkes), commesso di un negozio di scarpe, separato e padre di due bambini, sempre disponibile a fare nuove conoscenze e a rimettere in gioco la propria vita.

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Christine incontra Richard nel suo negozio, complici un paio di mocassini rosa (per l’uomo le scarpe possono cambiare la vita delle persone). La spontaneità e la freschezza di Christine riesce a mettere in soggezione il nuovo amico. I figli di Richard vivono i disagi della separazione (la madre non li va mai a trovare) e si portano dietro un sordo rancore nei confronti del padre, colpevole di aver spezzato il loro precario equilibrio esistenziale. Il più piccolo, Robby (Brandon Ratcliff), ha sette anni e passa il suo tempo chattando su internet, fino a quando intreccia ingenuamente una relazione erotica con una donna che poi scopriamo essere la direttrice di un museo. L’altro è il quattordicenne Peter (Miles Thompson) e le sue giornate le trascorre in buona parte in compagnia di due giovani vicine di casa, divenendo il capro espiatorio dei loro giochetti innocentemente erotici. La vicenda del film è ambientata nella classica cittadina di provincia, scenario ideale di solitudine ed angoscia. Il tema portante è l’alienazione, sintomo di un male di vivere che conduce all’isolamento (il rifugiarsi di Christine nel variegato universo della multimedialità è un segno emblematico, accanto alla figura del piccolo Robby che digita col suo computer parole di cui non conosce il significato).

Consideriamo “Me and you and everyone we know”, un piccolo teorema filosofico capace di prenderci alla gola, capace di descriverci l’ostinata lotta interiore contro il silenzio della coscienza, contro l’afasia che è l’incessante tentazione che ci perseguita. Richard è l’antieroe timido e spaurito, travolto dalla normalità che lo circonda (anche sul posto di lavoro) costringendolo ad un ripiego forzato. La colonna sonora è composta da Michael Andrews (lo stesso di “Donnie Darko”) e funziona da caloroso contrappunto alla vicenda, mentre il rock indipendente di Cody Cesnutt, e della sua “On a joyride”, sottolinea alcuni passaggi narrativi con ironia e intensità, e il sound psichedelico e sperimentale degli Spiritualized con “Any way that you want me” dona respiro sonoro alle atmosfere del film. Perché in “Me and you and everyone we know” nessuno sa più dire “I love you” come accadeva in un Woody Allen di qualche anno fa. L’opera prima della July possiede una grazia di scrittura, un’aspirazione alla tenerezza che quasi commuove. Ma il suo non è un cinema di papà, lo stile è moderno e il taglio mai banale: insomma, è uno di quei prodotti che riesce a conquistare la simpatia dello spettatore più esigente. Speriamo che questo accada pure da noi, dopo il successo ottenuto in patria. Dopotutto anche di piccoli film è lastricata la strada dei cinefili.

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