CINEMA E TV
Le buone azioni delle ninfe
LADY IN THE WATER
U.S.A., 2006
Di: M. Night Shyamalan
Con: Paul Giamatti, Bryce Dallas Howard, Bob Balaban, Jeffrey Wright, Sarita Choudhury, Freddy Rodriguez, Bill Irwin, Jared Harris
Siamo nella Philadelphia di oggi, in un complesso residenziale postmoderno denominato “The Cove” e delimitato da una vera e propria giungla: qui gli abitanti formano una piccola e variegata comunità. E’ questo l’unico scenario dell’ultimo film di M. Night Shyamalan, “Lady in the water”, operazione che ha segnato per l’autore una drastica rottura con la Disney e il passaggio ad una nuova major, ovvero la mitica Warner Bros. Il contesto dove la vicenda si svolge fa subito venire in mente il precedente lavoro del regista, “The Village”, il luogo di confine multietnico divenuto rifugio ideale da una violenza diffusa e dominante.
Cleveland Heep (uno straordinario Paul Giamatti) è il custode, balbuziente e pacifico di questo microcosmo, un uomo segnato da un passato doloroso che lo ha costretto a cambiare vita (il suo tragitto esistenziale richiama quello dell’ex pastore Mel Gibson in “Signs” sempre dello stesso autore). Nel condotto dello stabile si rifugia una “Narf”, una specie di ninfa in perenne fuga da presenze maligne regnanti nell’oscurità della giungla, ossia ringhiose creature che sembrano uscite dai memorabili horror diretti da Jacques Tourneur negli anni quaranta. La “Narf” si chiama Story (ad interpretarla è la diafana e brava Bryce Dallas Howard) e la sua missione consiste nel rintracciare uno scrittore - profeta che custodisce nella sua prosa il segreto per cambiare il destino del mondo (l’impegnativo ruolo se lo è cucito addosso lo stesso Night Shyamalan).
“Lady in the water” è una specie di fiaba fanta-horror con venature mitologiche (il regista pare l’abbia scritta pensando alle sue due figlie), un film che possiede l’intensità da mystery e l’ironia di certo fantasy post-moderno. Il tutto governato dal talento visionario del regista, che è autore sensibile anche se votato ad una certa ridondanza. Questa sua ultima fatica soffre di qualche cedimento narrativo soprattutto nella parte centrale, difetto che non cancella una positiva impressione sul film, assai interessante e suggestivo. Una parabola, sottile e profonda sull’incomunicabilità che sembra reggere il destino di un mondo, il nostro, che ha ancora bisogno almeno di una idea di amore universale capace di esorcizzare la paura che tutto condiziona e travolge.
Come dimostrano intere biblioteche di science fiction è l’uomo ad essere l’artefice del proprio infausto destino dal momento in cui ha spezzato le possibilità di dialogo con l’Altro (sia di questo mondo che degli altri universi paralleli). Tra i rappresentanti di questa autodistruzione c’è, nel film, Harry Farber (Bob Balaban), tronfio critico cinematografico costretto a recensire film romantici di malavoglia e che finisce nelle grinfie di una iena: è una tagliente e allusione di Night Shyamalan alla mediocrità incombente che contribuisce a rendere il mondo sempre più malato, che neutralizza la funzione delle arti senza conoscerne l’essenza. E’ la mediocrità delle odierne oligarchie reggenti, dei potentati mediatici in grado d’influenzare i gusti e le coscienze dei nuovi sudditi. Di quelli, cioè, che non hanno la fortuna di vivere in “condomini” eletti e che non hanno mai incontrato, mentre stavano per cadere, un’affascinante ninfa che li conducesse verso un happy end.
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