CINEMA E TV

HomeNewsCulturaCinema e Tv

"La contessa bianca", rifugi sull’orlo di un abisso

  • 27 febbraio 2006

LA CONTESSA BIANCA (The White Countess)
Gran Bretagna, U.S.A., Germania, Cina, 2005
Di: James Ivory
Con: Ralph Fiennes, Natasha Richardson, Vanessa Redgrave, Lynn Redgrave, John Wood, Madeleine Potter, Allan Corduner, Hiroyuki Sanada

Un attore diventa necessario quando è in grado di conformare i personaggi affidatigli alla propria personalità: è il caso del bravissimo Ralph Fiennes. Nell’avvincente ma troppo convenzionale “The Constant Gardener”, Fiennes veste i panni di un diplomatico britannico amante del quieto vivere e delle piante che, a Nairobi, rimane inizialmente insensibile di fronte alla drammatica realtà del traffico di farmaci da parte di potenti multinazionali. Nell’ultimo film di James Ivory, “La contessa bianca” è invece un ex diplomatico americano, rimasto cieco a causa di un incidente, immerso nella Shanghai del 1936. In entrambi i ruoli, Fiennes incarna la figura dell’uomo medio, tranquillamente qualunquista, disposto (almeno all’inizio) a chiudere gli occhi rispetto ai drammi del mondo. Il personaggio del film di Meirelles espone la propria cecità psicologica e ideologica, arrivando ad archiviare frettolosamente persino l’omicidio della moglie, sottraendosi al proprio dovere di funzionario pur di non affrontare la verità degli intrighi letali in un mondo dove le leggi del profitto imperano a dispetto delle regoli civili. La cecità sociale e quella psicologica hanno radici comuni, ci suggerisce Ivory.

Adv
Nel suo film Fiennes si chiama Todd Jackson e abita a Shanghai mentre la guerra è alle porte, dove gli affari vengono gestiti spietatamente in ambigui locali notturni, mentre i rifugiati, prime vittime della vertigine bellica, vivono con angoscia il precipitarsi degli eventi. E’ il caso della contessa Sofia Belinsky (Natasha Richardson), fuggita dalla natia Russia durante la rivoluzione bolscevica e rimasta vedova con figlia a carico, che vive con i parenti del marito, a lei ostili nonostante la sua buona volontà a mantenerli lavorando come ballerina nei night-club. La passività colpevole di Jackson non gli impedisce di sognare un mondo senza più guerre, ma egli si limita a chiudersi nel microcosmo del proprio locale, comprato con i soldi di una vincita all’ippodromo. Il locale si chiama “The White Countess”, nome ispirato dalla bella e triste Sofia, incontrata dal proprietario durante le sue peregrinazioni notturne e prontamente assunta allo scopo di intrattenere i clienti. Tra i due nasce così un’amicizia particolare che si trasforma in un amore struggente destinato a restare chiuso tra quelle mura, oasi artificiale dove Jackson può dimenticare e far dimenticare (simile al Rick di “Casablanca”), tra balli e canti (qui della tradizione cinese) quello che accade fuori. E Ivory sembra assecondare l'utopia del suo protagonista, ponendo in secondo piano gli eventi della guerra e concentrandosi sulla descrizione della vita notturna di Shanghai, raccontando le tribolazioni della famiglia di Sofia disposta a tutto pur di fuggire mentre le notizie dal fronte arrivano attraverso i titoli dei giornali e dalla radio fino a quando esplosioni, non più metaforiche, irrompono a far svanire ogni illusione di neutralità.

“La contessa bianca” è anche l’ultimo film del compianto produttore Ismail Merchant, morto durante le riprese, firma storica e marchio di raffinatezza estetica, storico complice di Ivory in quarant’anni di gloriosa carriera. La regia di Ivory sembra recuperare tutti i crismi dello stile affermato della ditta, come atto d’amore nei confronti di Merchant, esibendo una perfetta ricostruzione d’ambiente, sostenuta dalla sontuosa fotografia di Christopher Doyle in grado di evocare con intensità l’atmosfera dell’epoca. Ma in questa occasione Ivory cerca un eccessivo equilibrio di toni nel suo melodramma smorzato, e non sempre riesce a far lievitare gli ingredienti. Nel film non mancano comunque le emozioni: tra le scene più intense ricordiamo quella in cui Jackson accarezza il volto di Sofia, provando ad esplorare il segreto di una bellezza sfuggente e il mistero di un amore che non riesce ad esprimersi compiutamente. Sceneggiato dallo scrittore Kazuo Ishiguro, da cui Ivory aveva tratto uno dei suoi capolavori, “Quel che resta del giorno”, il film racconta pure una curiosa storia di amicizia, quella tra il suo protagonista ed una potente spia giapponese, Matsudo (Hiroyuki Sanada). Il fascino maggiore di questo film elegante e godibile sta proprio in questa teoria che intreccia relazioni tortuose e spesso sfuggenti, drammaturgicamente rivelatorie di quell’incertezza generatrice di conflitti storici dilanianti. Certamente non siamo ai livelli di altre prove memorabili anche se la straordinaria bravura d’interpreti come Natasha Richardson (che, a dispetto del ruolo, si trova in famiglia con la mamma Vanessa e la zia Lynn Redgrave) fa dimenticare cadute di ritmo e vuoti d’ispirazione registici. Affiora con coerenza il tema costante della filmografia di Ivory, l’indicazione ammonitrice di un disagio esistenziale, di un desiderio di fuga dal mondo (ricordate il personaggio del maggiordomo di “Quel che resta del giorno”?) che è una forma di ricerca del Tempo e dello Spazio perduti, l’Altro Reale d’identità che aspirano alla pace perpetua, vera e vana speranza del mondo ieri come oggi, come sempre.

Se ti è piaciuto questo articolo, continua a seguirci...
Iscriviti alla newsletter
Cliccando su "Iscriviti" confermo di aver preso visione dell'informativa sul trattamento dei dati.

GLI ARTICOLI PIÙ LETTI