MUSICA
Furious Party, parla Olly capitano della band
Prima dell’inizio del concerto, precisamente dopo il soundcheck, Olly è pronto per rispondere ad alcune domande
Cranio rasato, occhi macchiati di nero, sorriso vago, sguardo fugace, temperamento risoluto ma allegro: è Olly, il cantante dei Furious Party, la band milanese ospite giovedì 4 dicembre ai Candelai di Palermo, in occasione della rassegna “Punk for Christmas” organizzata da Terza Riva. Per lui la musica è gioco e lavoro insieme; finge di incitare dibattiti da sopra il palco mentre sta solo ironizzando sulla presunta seriosità da palco e per questo presenta i suoi pezzi ripetendo ogni volta: «ed ecco un pezzo spirituale..».
Ci sono due microfoni e Olly li alterna, uno è classico, l’altro è sulla linea anni ’60 che produce un effetto plastico-morbido sulla voce che sembra provenire da più lontano. Il pubblico ascolta, qualcuno ha azzarda dei movimenti per ballare ma purtroppo lo spazio rimanente è così largo che l’imbarazzo ha a meglio su quei piccoli cenni di dinamicità. Ma prima dell’inizio del concerto, precisamente dopo il soundcheck, Olly è pronto per rispondere ad alcune domande.
«Eravamo combattuti su un nome che potesse rappresentare in due parole il disco. Per mesi siamo stati fermi su “Pleasure of Pene”, il piacere del dolore».
Perché pensavate fosse adatto?
«Questo nome descrive lo stato in cui ci si trova quando si tenta a raccontare di sé ma rimane impossibile esprimersi pienamente, ciò che riesce ad una personalità introversa insomma».
Nel senso che i testi riguardano di più storie personali e fatti emotivi?
«“Pleasure of Pain” poteva descrivere quel crogiolarsi nella propria malinconia, godendo del ritrovarsi in un presente fatto di tristezza».
Invece avete scelto “Hipocrisy Showroom”. E’ un titolo più aderente all’album?
«Sì, rappresenta la nostra volontà a riprendere quel hard-core tipico anni ’80, gli anni della svolta sulla scena mondiale della musica. Anche in Italia avevamo esponenti che suonavano all’estero come i Raw Power e gli Indigesti. Rimaniamo attaccati a quel periodo e vogliamo essere “non-moderni”».
Questa attitudine è la fonte di ispirazione della vostra energia?
«Esatto. E’ ciò che ci spinge a suonare. Chi se ne frega di tutto, basta con i canoni del discorso moderno. La modernità cerca di migliorarsi, il suono cerca il digitale, le campionature, l’elettronica. Noi non ritocchiamo niente, facciamo musica di cuore, a mano libera».
Perché i testi sono solo in inglese? Non ti preoccupi del pubblico italiano?
«No, sono un egoista, i miei pezzi nascono solo da me senza restrizioni di alcun tipo, e la musicalità della lingua inglese mi aiuta a preferirla all’italiano, è più facile articolare le vocali e poi…è una lingua internazionale».
Qual è stato il tuo ruolo nel confezionamento del cd?
«L’ho registrato io in toto. Ho inserito alcuni arrangiamenti, ho seguito la composizione dei pezzi e poi l’ho mixato. Paolo Siconolfi è la persona che mi ha aiutato a trovare il tipo di suono che volevo».
Il crossover di generi?
«Cercavo un suono che non fosse hard-core, che non fosse punk, che non fosse nu-metal né rock. Crossover è una bella parola che serve a definire il non-definibile, il mix dei suoni».
Ti gasa rendere non etichettabile la tua musica?
«Faccio di tutto per riuscirci».
Nel panorama musicale in genere distingui mai tra buona e cattiva musica?
«Dipende dai gusti. Magari per qualcuno basso, batteria e uno che strilla nel microfono può essere una stronzata, anche se non lo è. Obiettivamente ci sono generi chiamati low-fi registrati in maniera “scrausa”, come diciamo noi al nord, in modo marcio…eppure proprio affascinanti per questo, per intenderci pensa ai White Stripes».
Conosci gruppi palermitani?
«Sì, alcuni. Hanno molto coraggio, perché sono lontani da Milano, dal giro delle etichette discografiche. Eppure si mettono sul furgone e fanno migliaia di chilometri per due date. Ci vuole proprio coraggio!».
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