CINEMA E TV
Fahrenheit 9/11, la nuova soglia del dolore
Il film ci mostra come sin dalle discutibili elezioni, Bush abbia messo in atto un preciso piano di salita al potere sostenuto dalle lobbies dei petrolieri
Fahrenheit 9/11
U.S.A. 2004
Di Michael Moore
Con Michael Moore
“Quale è il tipo di pizza più richiesto dagli italiani?” Questa una delle domande di un quiz televisivo di un tardo pomeriggio estivo in onda su una rete del circuito mediaset (ma purtroppo sappiamo bene che la rete pubblica non è da meno), classica fascia oraria di passaggio prima dei notiziari che segnano l’inizio delle programmazioni serali. Sebbene la domanda abbia già in sé qualcosa di insulso, e ci riesce difficile pensarla come una prova di non riusciamo a capire quale abilità, lo sbigottimento e l’incredulità crescono al sentire l’entità delle cifre messe in palio e l’epiteto che viene attribuito al vincitore quale ambita palma d’oro per detta competizione: “imbroglione”. Astenendoci da ulteriori commenti su un tale desolato esempio, ma ben consapevoli di quanto grande sia l’impoverimento intellettuale e morale nel quale rischiano di rimanere impantanate soprattutto le giovani generazioni in cammino nel faticoso processo di crescita e formazione quando prive di adeguati sostegni (con la povertà in aumento nella nostra società è questo ciò che accade), siamo però confortati dalla presenza di eventi che affermando la funzione sociale dell’arte ci indicano come la via della conoscenza sia ancora praticabile. Stiamo parlando del film “Fahrenheit 9/11” del documentarista, già premio Oscar, Michael Moore, premiato con la palma d’oro a Cannes nel 2004, nel quale si racconta cosa è accaduto negli Stati Uniti dopo l’undici settembre e come l'amministrazione Bush abbia usato il tragico evento dell'attacco alle Torri Gemelle per i propri interessi.
E la disillusione e lo sconforto di fronte agli inaspettati orrori della guerra di questi giovani soldati americani, per i quali è la povertà l’unico motivo per cui vanno a combattere (è un futuro ben diverso quello che gli “arruolatori” loro prospettano, e per loro che provengono dalle fasce sociali più povere della popolazione non ci sono altre prospettive se non quelle del sussidio, limitato nel tempo, di disoccupazione), ci mostrano ciò che l’America è diventata (e l’Italia purtroppo ne sta seguendo l’esempio): un paese dove a morire per tutelare gli interessi di pochi ricchi, interessi spacciati per interessi della nazione, sono quei poveri ai quali l’esercito viene mostrato come la strada più facile per un futuro ben lontano dalla prospettiva di morte e distruzione quale invece è. E tutto questo ce lo racconta con semplicità un ragazzone dall’aria ingenua, abbastanza in carne e col cappellino da monello, che compare qui e là nel documentario, nato a Flint nel Michigan, un paese squallido e triste “anche senza guerra”, e che in chiusura chiede ai senatori con depliants illustrativi di mandare i loro figli in guerra in Iraq. Chi scrive pensa che il titolo del film, preso in prestito dal famoso romanzo di Bradbury (per inciso, lo scrittore si è arrabbiato perché non gli è stato chiesto alcun permesso) indichi una nuova soglia del dolore oltre la quale ormai il concetto di guerra, di vita, di morte siano stravolti e i nuovi recenti orrori di Beslan sembra ce ne diano purtroppo conferma.
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