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Atmosfere jazz tutte da leggere

  • 12 dicembre 2005

Ci sono libri che, come Pinocchio, possono avere più livelli di lettura, rivolgendosi sì ai piccoli lettori, ma, nel loro strato “meta-liminale”, anche agli adulti. Ebbene, "I giganti del jazz" (Sellerio editore, 10 euro) di Louis “Studs” Terkel – premio Pulitzer nel 1985 con “«The Good War»: An oral History of World War II”, ma a partire dagli anni Trenta anche dj radiofonico, attore ed autore per teatro e televisione, esperto di cinema e critico musicale non solo in ambito jazz ma pure profondo conoscitore della musica americana in generale – dovrebbe trovare diritto di cittadinanza addirittura fra i testi scolastici, proprio per formare i giovani ed il loro approccio alla musica, e non solo. «La musica è allo stesso tempo la somma dell’esperienza totale del singolo musicista e di tutti i musicisti del passato». Basterebbe questa perentoria quanto semplice affermazione. Invece aggiungiamo un estratto della “descrizione” che del libro, secondo le proprie personalissime impressioni, fa Pietro Leveratto, uno dei contrabbassisti più acuti – musicalmente ed intellettualmente – del nostro panorama nazionale: «Con una discreta faccia tosta, fregandosene del rischio di apparire didascalico o troppo semplice, lascia campo libero alle persone delle quali sta narrando l’arte e le vicende spesso attraverso l’artificio di dialoghi reinventati che danno al libro un taglio quasi da radio-dramma. Nel suo lavoro è sostanzialmente assente l’impegno di una qualche analisi musicologia, non è nelle sue finalità e tutto sommato sarebbe stato inusuale un simile approccio in un libro concepito alla fine degli anni Cinquanta; ciò che gli interessa è mettere in scena le vite dei musicisti. Di suo ci mette una scrittura avvincente, perfettamente controllata e soprattutto la propria competenza di storico che non ha mai abdicato alla passione per le cose delle quali scrive».

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Presentazione che, paradossalmente ma anche rispettosamente, è posta solo alla fine del libro, quasi a non voler interferire con le suggestioni che il testo di Terkel suscita nel lettore. Certo, a chi non interessi il jazz o – peggio – la musica tutta, questo libro potrebbe legittimamente non dir nulla. Ma a tutti gli altri, ci auguriamo tantissimi, è dato modo di immergersi nelle atmosfere e nei fumi che era possibile respirare nelle varie epoche attraversate dalla leggera penna di Terkel, assistendo al metaforico passaggio di testimone fra King Oliver e Louis Armstrong o fra James P. Johnson e Fats Waller, rivivendo l’eleganza personale e musicale di Duke Ellington, percependo l’insicura tenacia di Count Basie trasformata in certezza di “fare la cosa giusta” dal successo di “One O’Clock Jump”, assistendo al poetico primo accostamento di Dizzy Gillespie agli strumenti della band del padre sparsi per casa; tracciando anche alcune notazioni caratteriali di questi “giganti”, come la fiduciosa pacatezza di Woody Herman, la patita passione di Billie Holiday o l’incessante ricerca di John Coltrane.

Dunque non un compendio biografico dei vari jazzisti di cui l’autore racconta l’arte, niente di esauriente o esaustivo sotto il profilo delle nozioni storico-biografiche. Lo stesso Terkel lo confessa, alla fine: «Tredici vite non raccontano l’intera storia del jazz. Il jazz è la musica di una moltitudine – pochissimi famosi, innumerevoli senza nome. E per oltre settant’anni questi musicisti hanno suonato e cantato il jazz. Milioni di persone l’hanno ascoltato. È la musica più originale d’America. Altri paesi ci hanno dato l’opera lirica, la sinfonia, il concerto, la sonata – le forme classiche della musica. L’America ha dato al mondo il jazz. E poteva succedere soltanto qui. E' in America che arrivarono i neri dalla costa occidentale dell’Africa – sulle navi negriere – portandosi dietro i loro ritmi eccitanti e complessi. E' in America che vennero gli Europei, portandosi dietro canti popolari, danze e marce. I neri americani assorbirono quelle melodie e vi aggiunsero il proprio ritmo, oltre al sentimento profondo degli spiritual e alla forza dei canti di lavoro. Di questa miscela nacque il jazz». Il libro è la rievocazione anche romanzata e pure avvincente di quelli che potrebbero essere stati, verosimilmente, i momenti, i frangenti, gli episodi, gli incontri che hanno scritto la storia di questa musica. E su tutto aleggia la definizione più emozionale che tecnico-didascalica del jazz: «musica sostanzialmente improvvisata, nella quale la carta pentagrammata altro non rappresenta se non una traccia per fornire ai musicisti un luogo nel quale incontrarsi». È di questo che Terkel scrive. Magistralmente.

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