MUSICA
A tu per tu con Sergio Beercock: dall'infanzia felice alla psichedelia
Il legame con l'infanzia, l'opinione sulla scena musicale, il rapporto con il teatro e il debutto sulla scena musicale con Wollow. Dietro le quinte di Sergio Beercock.
Sergio Beercocl
Sergio Beercock non solo musicista ma anche teatrante, non solo attore ma anche scrittore di testi che partono dal mondo infantile. Tra psichedelia "nel senso di saturazione", ricerca e una vita senza domeniche ha pubblicato "Wollow" l'album di esordio.
È nato nel 1990 in Inghilterra, a Kingston upon Hull e per inventare la parola "Wollow" si è ispirato a un quadro dipinto dal padre, insegnante di inglese.
Un titolo che letteralmente non vuol dire niente, ma il significato per Sergio è qualcosa di diverso.
«Una cosa che tengo a dire è che parto dalla scrittura sia nella musica che nel teatro e "Wollow" è il simbolo di un traguardo raggiunto dalla mia scrittura, ci sono certe cose che riesco a dire soltanto attraverso il teatro e altre irrinunciabili per la musica».
«Abbiamo vinto le semifinali a Napoli pochi giorni fa, io scrivo e dirigo spettacoli i cui testi hanno un filo conduttore che li lega tra loro, esattamente come i brani del disco: parto dal teatro dell'assurdo alla Harold Pinter e mi ispiro anche a Sartre e Kafka, tra i riferimenti maggiori resta anche Rainer Maria Rilke per la poesia. Inoltre ho mantenuto un fortissimo legame con il mondo dell'infanzia, ma non idealizzato e incantato ma come terra franca dove è inevitabile sperimentare».
Immagino un Sergio bambino felice.
«Molto felice. Sono cresciuto in una famiglia collateralmente molto creativa anche se non direttamente. Mio padre si è messo a fare il pittore dopo aver insegnato inglese per anni, come mia madre. Da loro ho impararo l'approccio con gli attori: li metto nelle condizioni di essere un personaggio e non gli dico mai come esserlo. I miei non insegnavano inglese ma insegnavano alla gente come impararlo».
Sembra che tu abbia un animo gentile.
«Perchè sembra? Il mio non è un personaggio, ho la fortuna di poter emergere per quello che sono davvero: a volte giullare di corte e a volte un folle che si crede un visionario ma non lo è. Sono come un bambino grande in un mondo molto più grande e mi piace pensare che ci siano ancora cose con cui sorprendersi».
E quando il bambino Sergio ha "sentito" la musica?
«Sono nato ascoltando Soul con mio padre, che ascolta prevalentemente quello. Ho percepito come il soul parta con rabbia dalle budella come descriva la passione dell'Africa nera e dell'America nera. Ho visto una a luce e l'ho seguita. Poi spontaneamente mi sono avvicinato al jazz e alla musica popolare nordica, quella tradizionale celtica, irlandese e inglese e mi sono appassionato».
Le tinte base di "Wollow" sono appunto folk con le influenze di Tim Buckley e Nina Simone, progetti un disco in italiano prima o poi?
«Dico sempre che non lo escludo ma non escludo nemmeno di poter fare fumetti. In realtà faccio le cose perché sento che è arrivato il momento di farle ma i testi che compongo per il teatro sono in italiano, il materiale potrebbe esserci già».
E quando hai iniziato a dedicarti al teatro?
«Come attore ho iniziato a 15 anni e ho lavorato su diversi palcoscenici, dal Biondo alle compagnie indipendenti. Da quando ne ho 21 ho iniziato a scrivere, è stato tutto molto spontaneo, ho lasciato la facoltà di Lettere Moderne di Palermo e volontariamente non ho fatto la scuola di teatro perché non mi piaceva l'idea di finire in un calderone, di diventare un universitario del teatro».
Tournèe teatrali e concerti in teatro, non se ne esce.
«Dal teatro non si esce mai, nella mia vita non ci sono domeniche. Ma facendo quello che mi piace fare, sono felice di dormire nelle pause».
Che consiglieresti a un esordiente che mira alla tua stessa carriera?
«Di farlo. Ma puntando sui contenuti e chiedendosi costantemente se "deve" e se è "necessario" per lui. Non deve domandarsi se fa bene o male ma se ne sente la necessità. Succede anche troppo frequentemente nella mia generazione di lasciarsi andare all'hobby, non che ci sia niente di male, ma se vogliamo contribuire è bello pensarsi come a dei mattoni e quindi chiedersi di cosa si debba essere mattoni. Una seconda cosa: scrivere sempre con sincerità e cercando di non pensare alle vendite. Ma tanto sono esordiente anche io, chi mi chiederebbe dei consigli?».
Della tua generazione di musicisti, qui e ora, che ne pensi?
«Mi sento abbastanza distaccato dalla scena musicale palermitana, nel complesso. Io sono partito da una o due generazioni fa per poter prendere la rincorsa e fare un salto in avanti. Lascio che le cose fluiscano per prenderle dal cassetto quando sono pronto. Lascio molto a lungo in gestazione le cose che faccio, avevo scritto (il brano) Adagio nel 2011 e ha debuttato nel 2015. Vedo però che la tendenza è quella di parlare di come le cose stanno nel presente. Così si rischia di fare più giornalismo che cantautorato e mi chiedo allora quale sia la necessità poetica. Siamo poeti generazionali o mattoni nella storia?».
Quindi insieme a chi ti piacerebbe suonare?
«Con Dario Fo, risposta secca: è bello restare fedeli al bambino che si è stati».
E come ti vedi tra dieci anni?
«Spero di essere così ma con tanti fiori. La stessa pianta di prima ma più fiorita».
La scelta di produrre in disco in Sicilia non nasce soltanto dal fatto che la mamma di Sergio sia siciliana ma da una fortunata quanto casuale corrispondenza nata tra lui e Fabio Rizzo, ovvero la casa discografica palermitana 800A Records.
Ultima domanda: i sogni nel cassetto.
«Vorrei dirti che non posso parlarne perché sono in gran parte erotici ma in realtà spero di avere sempre la possibilità di scrivere, siamo molto vicini alla censura e alla dittatura e il mio sogno è quello di non essere mai zittito. Anche se non scrivo di proteste, faccio canzoni di incoraggiamento».
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