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Le sorelle Pilliu, (fimmine) sole contro la mafia: "A casa nostra comandano le donne"

Per l'8 marzo vogliamo ricordare una storia di resistenza "al femminile". L'intervista a Savina Pilliu e il suo appello alle giovani donne: "Non abbassate mai la testa"

Peppe Musso
Collaboratore
  • 8 marzo 2024

Una storia di resistenza, di coraggio, e di giustizia (non completamente ottenuta). È la storia delle sorelle Pilliu, tristemente nota a tutti per le vicende legate alle loro abitazioni di piazza Leoni, a Palermo, diventate oggetto di interessi della mafia sin dagli anni '80.

Abbiamo voluto ripercorrere la storia, una storia in cui le donne sono le totali protagoniste (in positivo), con Savina Pilliu, l’unica delle due sorelle rimaste in vita.

Il racconto inizia sin dalle origini della famiglia, origini che non sono siciliane: «I miei genitori erano entrambi sardi, si sono conosciuti a Palermo - racconta Savina Pilliu -. Nelle case di via Leoni siamo nate io e mia sorella, Maria Rosa. E purtroppo, sempre qui, è morto anche mio papà».

I problemi, così chiamati, per le sorelle Pilliu iniziano con il costruttore Rosario Spatola: «Un giorno – racconta Savina – si presenta in negozio questo signore, dicendo di essere interessato a comprare questi immobili. Ci spiega che avrebbe demolito le case e costruito un grande palazzo».
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«Due settimane dopo mia madre notò un uomo in arresto alla tv e in quell'uomo riconobbe proprio Rosario Spatola».

Da Spatola si passa a un altro costruttore, ovvero Pietro Lo Sicco, che come il predecessore si presenta alla porta delle Pilliu chiedendo le case, forte della proprietà acquisita del terreno retrostante: «Lui si è presentato come possibile costruttore, ma non specificò neanche cosa aveva intenzione di realizzare.

Cambiò versioni più volte, ma non parlò mai di immobili. Noi avevamo necessità di rimanere in zona, avendo il negozio qui; così lui ci propose un altro appartamento».

Al rifiuto di vendere cominciano le stranezze. La zona viene presto recintata. Consultanto le carte del progetto, le Pilliu scoprono che anche le loro case erano state inserite all’interno della concessione, sebbene non ci fosse mai stata una vendita.

Molti degli allora proprietari, a quel punto, decidono di vendere ma non le sorelle Pilliu: loro decidono di non cedere. Loro decidono di resistere.

Iniziano così le intimidazioni: «Abbiamo ricevuto così tanti fusti di calce davanti al negozio che penso avessero esaurito persino i fornitori, tanto è vero che li fecero arrivare persino dalla provincia».

Non solo calce: «Ci arrivavano anche corone di fiori, non proprio il massimo del piacere - ricorda con rabbia Savina -. Avevano anche messo le nostre case su riviste di annunci immobiliari e ricevevamo centinaia di telefonate al giorno».

Per non parlare, poi, delle continue telefonate anonime.

Fino a quel momento, le sorelle Pilliu non avevano presentato ancora nessuna denuncia.

Nel 1992, incontrano il giudice Paolo Borsellino. Savina Pilliu lo ricorda con emozione: «Lui non faceva domande, ti lasciava libera di parlare. Dopo due brevi incontri dovevamo vederci il 13 luglio, ma il giudice ebbe un contrattempo.

La data successiva sarebbe stata il 15, ma essendo il Festino non abbiamo potuto presenziare, abbiamo così chiesto un’altra data. Lui si scrisse il mio numero sulla famosa agenda rossa, dicendo che ci avrebbe richiamato. Ovviamente non successe mai e tutti sappiamo perchè».

L'uccisione del giudice Borsellino colpì molto le Pilliu: «Provai sgomento e dolore. Non riesco a concepire come qualcuno possa arrogarsi il diritto di decidere delle vite altrui».

Nonostante tutto, le sorelle non mollano. «Noi, io e mia sorella, siamo sempre state perseveranti. I nostri “avversari” non hanno calcolato diversi fattori. Forse ci hanno sottovalutato, quegli uomini, pensando che noi con noi, donne, avrebbero avuto vita facile. Io invece credo che noi siamo riflessive, determinate, e penso che le cose le risolviamo meglio».

«Da dove vengo io, dalla Sardegna, comandano le donne. Forse loro non lo sapevano», sottolinea Savina.

In questa battaglia, al fianco delle Pilliu ci sono state diverse donne, tra queste i magistrati Antonella Consiglio e Vincenzina Massa. Siamo nel marzo del 1993 ed è allora che le sorelle decidono di denunciare.

«Io ho vinto la causa di risarcimento danni per riparare le case – ci spiega Savina – ma non abbiamo mai ricevuto nulla, al contrario lo Stato ci ha chiesto di pagare le tasse per la registrazione di sentenza».

Le case, ad oggi abbandonate, sono ancora lì: «Si dovrebbero riparare ma continuano a non riconoscerci nessun fondo, neanche quello di vittime di mafia. Abbiamo ricevuto ingenti danni. Abbiamo anche subìto cinque anni di processo per crollo colposo. Alla fine però siamo state assolte per non aver commesso il fatto».

La mafia ha provato a sconfiggere due donne, in vari modi, ma non ci è riuscita. Ci spiega la Pilliu: «Io non so se è soltanto perché siamo donne. Certo, non potevano sapere che siamo anche di sangue sardo in purezza, persone difficili da influenzare. Molti mi chiedono se mi sono pentita, assolutamente no. Anzi, avrei dovuto fare di peggio».

Sì, perchè quella di Savina Pilliu «non è solo una storia di mafia», come scrivono Pif e Marco Lillo nel libro "Io Posso", in cui raccontano la storia delle due sorelle e della loro battaglia.

«Dalle cose che racconta - scrive Pif nel libro - infatti è chiaro che, ogni volta che con Maria Rosa e la madre hanno bussato alla porta di qualcuno per chiedere aiuto e giustizia, dall'altra parte c'è stato spesso un atteggiamento di sufficienza. Negli anni settanta, tre "femmine" senza alcuna parentela importante decidevano che nessuno poteva metter loro i piedi in testa».

Tanta la solidarietà femminile ricevuta in questi anni. «Facendo una riflessione oggi, 8 marzo - dice Savina Pilliu -, devo dire che le donne incontrate su questo cammino hanno messo più sentimento e perseveranza. Forse per solidarietà femminile, non lo so, ma il mio riscontro è stato questo».

Infine, un messaggio da parte di Savina Pilliu per tutte quelle persone oneste, in special modo le donne imprenditrici, quelle che non abbassano mai la stessa.

«Il nostro caso non è isolato. Oggi, quando parlo con le scolaresche, dico sempre che se uno ha un diritto lo deve chiedere, pretendere e ottenere. Se abbassi la testa anche una volta sola, hai perso. Vorrei che tutti quanti percorressero la strada di ciò che vogliono fare, senza imposizioni. Seguite la vostra strada, sempre. Con determinazione».
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