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Le brioche con la panna del Panificio Cimino: per 104 anni una storia (golosa) alla Vucciria
Dopo oltre un secolo, nel 1986 chiuse i battenti lo storico negozio a Palermo. Ancora oggi c’è chi ricorda i sapori e i profumi del suo pane, anche col sesamo
Il panificio Cimino alla Vucciria
La bottega, che si trovava ai piedi della scala di raccordo con la soprastante via Roma, aveva forma di parallelepipedo e il lato lungo era rivolto verso la piazza.
Il bisnonno Baldassare ebbe 5 figli e 5 figlie, tutti impegnati nell’attività di famiglia. Alla morte di Baldassare la prospera azienda passò nelle mani del figlio Ottavio e gli altri figli aprirono nuovi punti vendita.
Il giornalista Vincenzo Prestigiacomo racconta ad esempio di Filippo Cimino - con bottega in via Pannieri, sempre alla Vucciria - che nel primo Novecento, prima dell’exploit delle grandi aziende dolciarie di Angelo Motta e Gioacchino Alemagna, vendeva a Palermo un profumato panettone, di produzione propria, preparato utilizzando una ricetta segreta ottenuta da Suor Virginia, monaca del monastero di Santa Caterina, originaria della provincia di Monza.
Sfornava ogni giorno oltre ai tradizionali prodotti da forno (pane, grissini, fette biscottate), prodotti dietetici (a base di farina di avena o segale) adatti all’alimentazione dei lattanti, dei bambini, dei diabetici e dei nefritici.
Nella carta intestata del panificio si leggeva in basso: "I diabetici nell’interesse della loro salute e per la loro tranquillità debbono alimentarsi degli speciali prodotti d’avena Cimino" oppure "Desiderando dei grissini più leggeri, più gustosi e più friabili chiedete i grissini all’olio Cimino, preparati in due tipi normali e sottili".
Il panificio era famoso anche per le sue morbidissime brioches con ottima panna, per i tricotti, le reginelle, gli algerini. Mimmo si alzava molto presto e andava al laboratorio, per impastare e infornare il pane, per i primi avventori, con l’aiuto di alcuni collaboratori.
Il pane era allora uno degli alimenti più consumati dalle famiglie: saziava e costava poco. “Si faceva colazione solo con pane e latte. Il pane accompagnava qualunque alimento, pure la pasta, sia a minestra che asciutta”. Scrive Giacomo.
Nel laboratorio del panificio, che si trovava in via dei coltellieri, nei pressi della chiesa di Santa Eulalia dei Catalani, si impastavano a mano formati di pane di ogni tipo: torcigliati, filoni, mafalde, vastedde, parigini, semprefreschi, signorine, pizziati, toscanini, scalette, muffolette, bocconcini, biovette, montasù, parigini, cimitorti…solo le rosette venivano realizzate con l’ausilio di stampi di metallo.
Si preparavano tre tipi d’impasto: a birra, forte e rimacinato. L’impasto per i diabetici veniva fatto riposare a lungo in una bacinella, sotto un rubinetto da dove fuoriusciva un perenne filo di acqua corrente, per eliminare l’amido dall’impasto. Il forno a legna veniva gestito dal fornaio di maggiore esperienza (detto governatore).
Il fornaio, prima di spingere all’interno della bocca arroventata del forno il pane disposto nelle teglie, incideva rapidi colpi di lametta su ogni pezzo per decorarne la superficie oppure vi spargeva un pugnetto di semi di sesamo. “A proposito di sesamo, pare che il mio bisnonno sia stato il primo fornaio palermitano a utilizzarlo sul pane.
A sostegno di tale ipotesi vi è il nome stesso che i palermitani hanno dato al sesamo cioè cimino…Non so dire, in verità, se l’ipotesi sia corretta o se si tratti solo di una leggenda metropolitana, ma a me piace pensare che sia andata veramente così”. Scrive ancora Giacomo Cimino.
Qualche palermitano sostiene che il sesamo venne chiamato cimino perché nei sacchi che lo contenevano c’era impresso il nome del panificio.
Altri scomodano il greco Kyminon àgrio o il turco Zimit (pane ricoperto di sesamo che si produce in Turchia). In realtà è vero che anticamente per cimino s’intendeva il comino, i semi di anice e non il sesamo che veniva chiamato giuggiulena.
Nel nuovo vocabolario siciliano italiano di Antonino Traina del 1868 si legge per cimino anace (anice) e nel dizionario siciliano – italiano di Rosario Rocca del 1839 si legge infatti Zambù spirito di cimino (ossia anice).
Quindi è probabile che ci sia un fondo di verità nella storia raccontata da Giacomo Cimino; ma torniamo al signor Mimmo, che incoraggiato dal fatto che gli affari alla Vucciria andavano bene, nel 1956 rilevò un piccolo pastificio in via Sampolo e cominciò a produrre pasta a livello industriale.
Purtroppo a causa di un incendio doloso appiccato per danneggiare l’azienda, il pastificio tre anni dopo la sua inaugurazione, nel 1959, cessò l’attività. Mimmo per fortuna aveva ancora il negozio a piazza Carracciolo, che serviva a sfamare la sua famiglia…
Trent’anni dopo, nel 1986, dopo 104 anni di onorato servizio, la ditta Cimino ha chiuso i battenti a causa della crisi economica che già dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso aveva investito la Vucciria, portando alla chiusura via via di tutte le fiorenti attività commerciali.
Lo storico mercato della “Bocceria” ha visto asciugarsi le sue balate: chiusi i tendoni sulle bancarelle che invadevano la strada, spente le lampadine che rischiaravano la merce, oggi è principalmente un’attrazione folkloristica per turisti.
Quasi nulla rimane del fascino degli antichi venditori che “abbanniavano” con suoni gutturali l’eccezionalità dei loro prodotti, sovrapponendo le loro voci e dando origine a quella vivace confusione che portava i nostri insegnati ancora diversi anni fa ad esclamare ; “Picciotti, non fate vucciria!”.
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