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La vita (amara) in Sicilia di Rosa Balistreri: i canti di protesta tra morte, fame e miseria

La vita travagliata della cantautrice, nata povera e divenuta famosa. Dal matrimonio infelice all’assassinio della sorella per mano del marito, fino al suicidio del padre

Maria Oliveri
Storica, saggista e operatrice culturale
  • 27 giugno 2022

Rosa Balistreri

«Io non sono neanche una cantante: io sono una cuntastorie e una cantastorie. Ho imparato dal popolo, Voi capirete Rosa Balistreri quando sarò morta. Ma fin quando sarò viva, mai. Perché protesto, e ho ragione di protestare» così diceva di sé stessa Rosa Balistreri.

Dotata di un timbro vocale unico e intenso, interprete di canzoni popolari siciliane con un tono struggente e drammatico, Rosa Balistreri ci ha lasciato purtroppo prematuramente, da oltre 30 anni.

I suoi erano canti di protesta che davano voce ai contadini, agli zolfatari, agli emigranti, ai carcerati. A tanta gente sfruttata e umiliata proprio come lei, che aveva una vita molto travagliata alle spalle.

Era una famiglia numerosa e molto povera quella di Rosa, che aveva due sorelle e un fratello, Vincenzo, paraplegico sin dalla nascita. La cantante era nata a Licata, in provincia di Agrigento, nel 1927: il padre era falegname e la madre casalinga.

Aveva trascorso l’infanzia e la giovinezza nella miseria, nel quartiere della Marina dove era stata costretta ad andare per le strade a raccattare bucce d'arancia per mangiare, oppure ad andare a chiedere la carità per sfamare la famiglia.
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Fin da bambina aveva accettato anche i lavori più umili: andando a servizio presso le case di famiglie benestanti, facendo l’operaia nelle industrie di conservazione del pesce; andando a spigolare nei campi.

Soltanto a quindici anni, ancora analfabeta, aveva indossato il suo primo paio di scarpe e a sedici anni aveva sposato Gioacchino Torregrossa, detto Iachinazzu: si era trattato di un matrimonio combinato e infelice; molti anni dopo, Rosa avrebbe definito il marito “latru, jucaturi e ‘mbriacuni” (ladro, giocatore e ubriacone).

La coppia aveva avuto un’unica figlia Angela e il giorno in cui Rosa aveva scoperto che il marito aveva perso al gioco il corredo della figlia, lo aveva aggredito e pensando di averlo ucciso era andata a costituirsi dai carabinieri ed era finita in galera.

Gioacchino era sopravvissuto, perché “l’erba tinta non muore mai” e Rosa, dopo 6 mesi era stata scarcerata. Per mantenere la figlia e aiutare la sua famiglia di origine la donna non si era risparmiata: dapprima lavorando in una vetreria, poi come raccoglitrice e venditrice di lumache, capperi, fichi d’india, sarde e infine andando a servizio presso una famiglia aristocratica di Palermo.

Purtroppo si era innamorata del figlio del padrone e cedendo alle lusinghe era rimasta incinta. Era stata costretta a fuggire e poi a scontare altri sei mesi di carcere, perché accusata di furto a casa del padrone.

Uscita dal carcere, nonostante l’evidente stato di gravidanza, aveva vissuto per strada, fino a quando non era stata accolta da un’amica ostetrica che l’aveva aiutata a partorire: il bambino purtroppo era nato morto.

Ripresasi dal dolore della terribile perdita, aveva trovato lavoro come custode a Palermo, nella chiesa di Santa Maria degli Agonizzanti, dove si era trasferita a vivere, nel sottoscala, insieme al fratello Vincenzo e aveva sistemato la propria figlioletta Angela in collegio.A 32 anni aveva imparato a leggere e scrivere. Un giorno era stata molestata dal prete e non avendo ceduto alla lussuria del sacerdote era stata scacciata in malo modo.

Rosa aveva rubato allora i soldi delle cassette dell’elemosina, aveva acquistato due biglietti del treno ed era partita col fratello Vincenzo per Firenze.

Qui Vincenzo si era messo a fare il calzolaio e Rosa la donna di servizio, in case signorili.
Raggiunta a Firenze anche dalla madre e da una delle due sorelle, Rosa aveva aperto con loro un banchetto di frutta e verdura al mercato di San Lorenzo.

Quando le cose sembravano mettersi per il meglio, ecco profilarsi una nuove e terribile tragedia: la sorella Maria che aveva tentato la fuga per Firenze, veniva raggiunta dal marito e brutalmente assassinata. Addolorato e disperato il padre di Rosa, si tolse la vita impiccandosi.

Rosa rimase a Firenze per 20 anni, vivendo anche con il pittore Manfredi Lombardi. Durante questo periodo allargò la cerchia delle sue amicizie e venne a contatto con molti intellettuali, tra cui Mario De Micheli, che incantato dalla sua voce, le diede la possibilità di incidere il suo primo disco con la Casa Discografica Ricordi.

Rosa non si fermò però ad interpretare vecchie canzoni, partecipò attivamente alla composizione di testi, fornendo a volte anche la traccia musicale. Presero vita, così, canzoni come "Mafia e parrini", "I Pirati a Palermu" e tante altre, sull’emigrazione e sul duro lavoro di contadini, braccianti, minatori.

Nel 1966 e nel 1969 Rosa partecipò alle prime due edizioni dello spettacolo “Ci ragiono e canto” per la regia di Dario Fo: la donna aveva quarant’anni, il volto segnato da una vita tanto intensa e faticosa. La sua presenza scenica, così drammaticamente autentica, rimaneva ben impressa negli spettatori, come le canzoni che interpretava.

Lasciata da Manfredi per una modella, Rosa cadde in depressione e tentò il suicidio. Fu solo nel 1971 che decise di tornare in Sicilia, non più come povera serva, ma come artista affermata. Doveva mantenere sé e la figlia che nel frattempo per amore aveva lasciato il collegio e aspettava un figlio.

Chiese aiuto agli amici del Partito Comunista, che le diedero modo di esibirsi alla Festa dell’Unità in varie città. Il poeta Ignazio Buttitta, scrisse per lei numerose liriche andatesi ad aggiungere al suo già vastissimo repertorio.

Nel 1973 al Festival di Sanremo, la sua canzone dal titolo “Terra che non senti” venne esclusa all’ultimo momento. L’esclusione suscitò molte polemiche, al punto che Rosa venne considerata da molti la vera vincitrice morale del Festival di quell’anno.

«Ho deciso di gridare le mie proteste, le mie accuse, il dolore della mia terra, dei poveri che la abitano, di quelli che l’abbandonano, dei compagni operai, dei braccianti, dei disoccupati, delle donne siciliane che vivono come bestie. Era questo il mio scopo quando ho accettato di cantare a Sanremo.

Anche se nessuno mi ha visto in televisione, tutti gli italiani che leggono i giornali sanno chi sono, cosa sono stata, tutti conoscono le mie idee, alcuni compreranno i miei dischi, altri verranno ai miei concerti e sono sicura che rifletteranno su ciò che canto». Diceva Rosa.

Negli anni ’80, stabilitasi definitivamente a Palermo, proseguì la sua attività recitando e cantando al Teatro Biondo.

Il 1987 fu per Rosa l’ultima estate artistica come attrice teatrale, mentre come cantautrice continuava ad esibirsi in Svezia, in Germania, in America, raccogliendo sempre applausi ed apprezzamenti.

Rosa si spegneva all’ospedale di Villa Sofia a Palermo, il 20 settembre del 1990, a 63 anni, per un ictus cerebrale.

Dopo la sua morte, la sua memoria si è appannata, ma negli ultimi anni i suoi eredi e in particolare il nipote Luca Torregrossa, lavorano per recuperarne il valore e l’opera: si vocifera anche a breve di un film, dedicato alla grande Rosa Balistreri, orgoglio siciliano.​
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